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Berlino 1961: un muro per ostacolare la libertà e proteggere il socialismo sovietico

Non solo una semplice costruzione con ovvie finalità divisive, ma anche e soprattutto l’emblema di un’ideologia liberticida. Il muro di Berlino ha rappresentato, per ben 28 anni, la netta separazione tra Occidente capitalista e Oriente socialista.



Eppure, visto che non funse da orpello inaugurale della Guerra Fredda, in quanto questa era già cominciata nel 1945 (a guerra mondiale conclusa), è legittimo chiedersi perché il governo della Repubblica Democratica Tedesca abbia mai potuto avvallare un tale progetto. La risposta, certamente, si può rinvenire in un’analisi contestuale della Germania post-bellica.

 

Trattandosi di un Paese, la Germania, allo stremo e da ricostruire secondo logiche ideologiche di parte, rispettando allo stesso tempo le volontà dei vincitori, tutto faceva pensare che la soluzione dei due Stati fosse si inevitabile, ma, al contempo, eventualmente superabile, dietro promessa scritta di una neutralità permanente.

 

Il problema era dato, però, da quale struttura attribuire a un possibile Stato tedesco unitario: se si fosse scelto l’impianto DDR, allora gli ex alleati occidentali avrebbero, senza alcun dubbio, ostacolato tale piano in quanto unicamente conveniente all’URSS; sia per una questione di prestigio ideologico, sia per una questione puramente strategica. Sarebbe stato giudicato come un arretramento eccessivo, quindi come un fatale errore in prospettiva di un surriscaldamento potenziale del conflitto, vista anche la chiara intenzione da parte di Mosca di sviluppare massicciamente il proprio complesso militare-industriale, attraverso l’utilizzo del know-how tedesco.

 

Al contrario, qualora la Germania si fosse riunita sotto l’egida di Bonn, l’ipotesi formulata per l’Unione Sovietica sarebbe valsa per una Germania “alleata”, pur affievolita dal già consistente livello di sviluppo tecnico del blocco occidentale. Bisogna tenere a mente che questi progetti di riunificazione avrebbero dovuto essere implementati nella prima metà degli anni ‘50, quando le nazioni occidentali erano già avviate verso i rispettivi miracoli economici. Inoltre, la presenza, con ruoli assai delicati nell’organigramma NATO, di figure come Hans Speidel e Adolf Heusinger, già generali della Wehrmacht, non facevano altro che confermare i dubbi del Cremlino legati a un utilizzo strumentale del concetto di neutralità.

 

Per questo motivo, una volta lasciati alle spalle i piani di riunificazione del 1952 e del 1955, si decise di difendere a spada tratta lo status quo tra i due Stati, i quali non godettero certamente dello stesso grado di consenso.


Difatti, é indubbio che in uno di questi il sentimento antisovietico o meglio anticomunista, instillato dalla martellante propaganda nazionalsocialista degli anni precedenti e rafforzato dall’esperienza diretta sotto occupazione sovietica, portò a disordini quali quelli del 1953, in cui lavoratori e operai si opposero con decisione alle scelte collettivistiche ed estremamente interventiste in campo economico, di fatto mirate alla nazionalizzazione totale, e che furono repressi senza mezzi termini dalle forze di polizia e dalle truppe sovietiche di stanza nella Germania orientale.

 

Per questo la DDR non aveva alcuna intenzione di accettare eventuali trattative di riunificazione, in quanto si sarebbe ritrovata in una posizione molto instabile e consequenzialmente svantaggiosa. Ed ecco spiegato perché né Mosca né tantomeno Berlino Est erano veramente convinte dell’ineluttabilità di un’unica Germania. Così, una volta abbandonata definitivamente questa strada, si decise di virare con forza verso il nuovo obiettivo: compresa la propria impopolarità de facto (1953 docet), salvare il regime a tutti i costi era diventato imperativo.

 

E da questo punto di vista anche una scelta estremamente radicale come la costruzione di un muro ha un suo valore. D’altro canto, già da molto tempo prima del fatidico 1961, il segretario della SED e Presidente del Consiglio di Stato della DDR, Walter Ulbricht, stava cercando il modo più efficace per evitare il passaggio dei tedeschi orientali verso Berlino Ovest, appartenente alla RFT, tutto mentre l’URSS di Kruscev, apparentemente spostata su posizioni riformiste, stava facendo pressioni su Berlino Est, quindi sullo stesso Ulbricht, affinché si ponesse fine una volta e per sempre a quel traffico di transfughi ormai non più tollerabile.

 

Coloro i quali hanno affermato, e continuano ostinatamente ad affermare, che la decisione di costruire il Muro di Berlino arrivò unilateralmente da Mosca non tengono conto di due fattori essenziali: in primis, la politica interna della Germania Est era prerogativa del Fronte Nazionale, guidato dalla SED, e la scelta della costruzione rientra a pieno titolo nel campo d’azione del Fronte; in secundis, qualora l’ordine fosse anche effettivamente partito dal Cremlino, era comunque necessario il beneplacito di Berlino Est e, ancora, qualora lì avessero concepito la costruzione come un inutile fronzolo, atto solo a “mostrare i muscoli”, sicuramente il muro non sarebbe neanche stato progettato.

 

È sempre utile ricordare che si trattava di un regime, la Germania Est, non gradito alla maggioranza della popolazione e che, per tanto, non poteva permettersi passi falsi.

 

Del resto, quel 13 agosto 1961, giorno d’inizio dei lavori di costruzione, mentre sul piano interno la priorità di salvarsi non lasciava spazio ad altre “futili” considerazioni, si sottovalutarono i risvolti propagandistici sul piano internazionale; che per la DDR e l’intero Patto di Varsavia furono un disastro, poiché alimentarono nel “mondo libero” la convinzione che il socialismo fosse solo una nuova forma di dispotismo abile a trarre consenso all’esterno ma non nei Paesi in cui si stabiliva.

 

Sicuramente, però, il muro servì il suo macabro scopo, tanto che, con quella nuova costruzione lunga più di 155 km, le emigrazioni passarono da 2,6 milioni, tra il 1949 e il 1961, a 5000, tra il 1962 e il 1989.

 

Insomma, un netto miglioramento che, però, alla luce dei fatti, si dimostrò tutt’altro che utile a salvare la DDR dalla sua invitabile caduta. Del resto, ciò era impossibile, soprattutto per chi, convinto di essere dalla parte giusta della storia, ha agito in nome di un’utopia per reprimere la libertà e il suo stesso popolo.

 

E quando si giunge a questi mezzi crudeli pur di salvare il proprio potere ed evitare di ammettere i propri fallimenti, tutto é perduto, tranne ciò che non si può distruggere, neanche con la coercizione o con il terrore, ossia quell’indomabile senso di libertà a cui tutti hanno pieno diritto e per il quale lottare non può mai essere una seconda scelta.


Di Antonio Bonasora

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