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Buona morte

Yasmine, Nora, Myriam, Mina, Mehdi.


Sono passati ormai sedici anni dal giorno in cui mamma Geneviève pose fine alla loro innocente esistenza, prima di rivolgere il coltello verso se stessa. Una tragedia che colpì l’opinione pubblica del Belgio e dell’intera Europa, tanto da ispirare il film «À perdre la raison» del 2012, diretto dal regista Joachim Lafosse.


La cronaca di questi giorni ci ricorda quanto provata fosse la donna: vittima di un’infanzia infelice e, in seguito, di una scarsa intimità matrimoniale, Geneviève aveva espresso il proprio malessere in più occasioni. All’amica Valéria, cui aveva scritto: «non c’è soluzione al problema. Ho preso la decisione di andarmene con i miei bambini, molto lontano, e per sempre.


«[…] Me ne sono andata dalla casa dei miei genitori e sono piombata da un inferno a un altro». Allo psicologo cui si era affidata per anni, destinatario di una lettera in cui preannunciava il piano che avrebbe distrutto la sua famiglia per sempre. Giudicata, al momento del processo, capace di intendere e di volere, fu condannata all’ergastolo nel 2008 in quanto colpevole di omicidio premeditato. Durante le udienze, Geneviève accusò il marito di violenza e di averla costretta ad una vita di reclusione; accuse respinte e mai verificate. Una seconda perizia medica, comunque, indicò che non era possibile ritenerla responsabile delle proprie azioni, anzi ne raccomandò il ricovero in una clinica psichiatrica. Nonostante la terapia, la donna tentò il suicidio nuovamente, senza riuscirvi. Il 28 febbraio scorso, giorno dell’anniversario di quell’evento sconvolgente, il caso Lhermitte si è chiuso definitivamente: Geneviève è morta in un ospedale della regione della Vallonia. Causa del decesso: eutanasia per sofferenza psicologica irreversibile.


Eutanasia. Buona morte. Quale morte può essere considerata “buona”?


La norma belga, in vigore dal 2002, autorizza la pratica nell’ipotesi in cui una persona manifesti in modo “ragionato e ripetuto” la volontà di porre fine ad una sofferenza fisica o psichica che venga accertata come “costante, insopportabile ed ineliminabile”. Premesso che nessuno può giudicare la sofferenza altrui, la mia attenzione si è soffermata sul ruolo che uno Stato civile ricopre di fronte alle questioni bioetiche: cosa prevale, o cosa dovrebbe prevalere, tra la tutela della vita e il diritto all’autodeterminazione?


A tal proposito in Italia dottrina e giurisprudenza hanno elaborato diversi filoni di pensiero; alcune recenti vicende, in particolare, sono entrate nella cronaca quotidiana alimentando il dibattito e portandolo su un piano etico-politico, invece che meramente giuridico, come il caso “Welby” o la storia di DJ Fabo. Entrambi sono esempi in cui la Legge fu chiamata a risolvere il trade-off tra la tutela dell’esistenza umana in quanto diritto preordinato ai diritti fondamentali e l’attuazione del principio di autodeterminazione, che in materia sanitaria si traduce nella libertà per l’individuo di rifiutare, in presenza di determinate condizioni, le cure e i trattamenti medici.


La nostra Costituzione, fondata sulla centralità della persona e della sua dignità in via preordinata, adotta una concezione della vita umana quale interesse collettivo e bene non in tutto disponibile da parte del singolo; lo Stato ne fa da garante, tanto da denominare come fondamentale in modo esplicito solo il diritto alla salute. Inoltre, laddove l’ordinamento tutela un diritto, limita il diritto o arreca uno svantaggio ad altri; non si può dunque prescindere dall’analisi, in tema di “diritto alla morte”, del conseguente dovere che sorgerebbe in capo al medico tenuto ad eseguire la volontà del proprio paziente in maniera attiva.


Se, da un lato, il principio di autodeterminazione garantisce la dignità dell’esistenza (ovvero della morte) attraverso il diritto a lasciarsi morire, sia in forma di abbandono alla naturale evoluzione di una patologia sia in forma di distacco da dispositivi meccanici quali i respiratori artificiali, dall’altro non trova alcuna copertura costituzionale la volontà di porre fine alla propria esistenza mediante l’intermediazione attiva di terzi, nemmeno quando ritenuta non più meritevole di essere vissuta perché non dignitosa. È diversa, di conseguenza, la fattispecie in cui il paziente, che si trovi in una condizione patologica irreversibile, decida di non contrastare la propria malattia, dalla fattispecie in cui un soggetto affetto da disturbi fisici o psichici decida di ricorrere al suicidio assistito poiché non ha la volontà di continuare a vivere, come nel caso Lhermitte raccontato all’inizio di questo articolo.


A mio avviso, il nostro ordinamento giuridico propone una soluzione equilibrata in merito al tema dell’eutanasia: ogni individuo è libero di decidere per sé, non essendo disposto alcun obbligo alla vita, ma è doveroso ricordare come questa rappresenti il presupposto alla dignità ed alla stessa autodeterminazione e sia perciò l’interesse primario da difendere per il legislatore. Uno Stato che permette di praticare l’eutanasia “attiva” è uno Stato che rinuncia a realizzare lo scopo nel quale si giustifica la sua esistenza: invece che essere al servizio della persona e dei suoi bisogni materiali e spirituali, attraverso politiche di aiuto alla vita e strumenti di sostegno nelle difficoltà, si occupa di agevolare il passaggio a “miglior vita” mediante l’aberrante strumento, appunto, della buona morte.


L’auspicio che mi sento di esprimere in conclusione è che il nostro Paese non veda mai approvare una norma simile a quella belga, che fa trasparire il totale individualismo di una società a cui non interessa tanto curare l’altrui sofferenza, quanto più favorire un’eliminazione rapida, silenziosa e possibilmente inosservata, di tutte quelle forme di esistenza ritenute indegne perché intralciano la produttività e rappresentano un “costo” per l’economia.

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