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Di Gianluca Padovan
Capello ha la “bua” e Badoglio fa la “nanna”
Il 25 ottobre «il generale Capello, ammalato di nefrite e febbricitante, lasciò al generale Montuori il comando della 2a Armata (…). Si tenga presente che Capello, per la identica ragione, si era dovuto allontanare dal suo posto anche il 20 ottobre. Egli era poi ritornato al comando dell’armata il giorno 23, ossia dopo le interessanti rivelazioni fatte in merito al piano nemico da due ufficiali rumeni disertori» (Saverio Cilibrizzi, La disfatta di Caporetto, op. cit., p. 13).
Passiamo a Badoglio: siamo a cavallo tra il 23 e il 24 ottobre e a seguito di una intercettazione telefonica avversaria il «colonnello Cannoniere, alla presenza dei maggiori Di Castro e De Luca e del capitano Crivelli, domandò, per telefono, a Badoglio – che si trovava a Kosi – l’autorizzazione di cominciare senz’altro il tiro di contropreparazione alle ore 2 della notte. Badoglio respinse, in modo categorico, la proposta. Egli disse: “Assolutamente non si cambi nulla; abbiamo munizioni per soli 3 giorni. E non so se te ne potrò fare avere. Ad ogni modo, ci vedremo”» (Ibidem, p. 73).
Se ci si attendeva un’offensiva è chiaro che si sarebbe dovuto provvedere a fare giungere per tempo alle batterie un congruo quantitativo di munizioni. In ogni caso si doveva fare fuoco sull’avversario avanzante. Si è visto che Badoglio si trova a Kosi, quando riceve la telefonata. Quindi?
Risponde Cilibrizzi: «La questione del silenzio dei cannoni e del rapido sfondamento del settore tenuto dal 27° Corpo d’Armata apparirà ancora più chiara quando avremo esaminata la quarta ed ultima accusa fatta a Badoglio. Tale accusa supera, per la sua eccezionale gravità, tutte le altre messe insieme. Si tratta, nientemeno, di questo: la notte del 23 e la giornata del 24 ottobre 1917, Badoglio non era la suo posto di comando.
Dove si trovava? Egli era nel villaggio di Kosi, luogo di riposo (…). Sicché la sera del 23 ottobre, questo generale, pur sapendo che, durante la notte sarebbe stato iniziato il grande attacco nemico, non sentì il dovere di recarsi al suo posto tattico di comando, che si trovava sul Monte Ostri Kras, e andò invece, in un luogo di riposo. Ciò sembra addirittura inverosimile» (Ibidem, p. 73).
A “rotta” avvenuta… «Fattasi curare un’emorragia ad un vicino posto di medicazione, il magg. Cantatore riprendeva la discesa finché incontrava l’autovettura proveniente da Kosi recante il gen. Badoglio, il suo Capo di SM ten. Col. Pellegrini ed i capitani Sforza e Mondelli» (Gianni Pieropan, 1914-1918. Storia della Grande Guerra sul fronte italiano, Mursia editore, Milano 1988, p. 426). Oltre al “poker d’assi” di generali italiani occorrerebbe allargare nuove indagini anche nei confronti dei loro più stretti sottoposti.
Puntualizza Pieropan parlando di Badoglio: «In ogni caso egli fu l’unico, fra i massimi esponenti militari, a sortire non soltanto indenne, ma insignito di benemerenze, dalla vicenda che ne travolgerà altri più illustri: le cui responsabilità, verificate sui fatti, certamente non furono maggiori» (Ivi).
E nel frattempo che fa Cadorna? A ottobre è a zonzo con l’automobile, ma il maltempo lo fa rientrare a Udine il 19 ottobre…
Arriva la “Madama” e si gettano le carte da gioco nel cestino
A disfatta avvenuta si cercano i colpevoli e lo Stato Maggiore italiano si domanda che cosa sia accaduto a Caporetto, se si debba parlare di tradimento, di voluta mancanza di resistenza da parte dei soldati italiani imputando loro il fantomatico “sciopero militare”, oppure se si debba parlare di vera e propria sconfitta militare.
Pochi giorni dopo, il 28 ottobre, il bollettino di guerra redatto da Luigi Cadorna recita: «“La mancata resistenza di reparti della 2° Armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia”» (Saverio Cilibrizzi, La disfatta di Caporetto, op. cit., p. 25).
In pratica si fa ricadere ogni colpa sul soldato italiano e la qual cosa non manca di fare il “giro” del mondo intero. Non del medesimo avviso sono stati i nostri diretti avversari. E Cilibrizzi scrive: «Luigi Cadorna doveva pensare che il prestigio e l’orgoglio di qualsiasi uomo sono ben poca cosa di fronte al prestigio e all’onore di un esercito e di una Nazione (…).
Prima ancora di Cadorna, fu il generale Capello ad affermare che Caporetto era dovuto ad una specie di “sciopero militare”. Il Maresciallo d’Italia Enrico Caviglia ha detto: “Il torto più grave del generale Capello fu d’aver attribuito la disfatta (confortando così il Comando Supremo ad esprimere lo stesso giudizio) alla scarsa resistenza delle truppe, e non già agli errori propri e di altri Comandi.
E quel ch’è peggio, Capello, al pari di Cadorna, non modificò questa sua opinione. Infatti, alcuni anni dopo, nelle sue Note di guerra, egli scrisse: “Io oggi come allora sinceramente dichiaro che non credo a veri complotti, non so di tradimenti, ma so di voluta sconfitta, ma so che la resistenza delle truppe fu in molti punti deficiente”» (Ibidem, pp. 29-30).
Apre bocca anche chi non gioca a carte
Purtroppo anche altri denunciarono indebitamente lo “sciopero militare”, tra cui Enrico Barone (colonnello), Leonida Bissolati (onorevole), Carlo Delcroix (decorato dell’Ordine Civile dei Savoia, del Gran Cordone della Corona d’Italia, dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro e della Legion d’Onore francese), Gaetano Giardino (Maresciallo d’Italia), Ezio Maria Gray (giornalista e politico).
In sostanza, secondo costoro, le cause andavano ricercate innanzitutto nella propaganda antimilitarista di stampo socialista e clericale, non già, in primis, nella guerra stessa, nell’insipienza dello Stato Maggiore del Regio Esercito e nelle condizioni inumane in cui era fatta vivere e morire la truppa di linea.
Puntualizza Francesco Fadini: «La critica sembra dimenticare che, arrivate in pianura, le unità di Below non riuscirono a dettar legge come avrebbero voluto e come si credettero autorizzate a fare dopo i facili successi iniziali, tipo marcia in fondovalle degli slesiani, stretta di Saga, quota 1.114, Matajur e via dicendo.
Da Cividale del Friuli alla riva destra del Tagliamento, non poche truppe della II armata italiana sconfitta, pur in mezzo a torme numerosissime ed apatiche di sbandati, diedero prova di una notevole coesione organica e di una capacità di resistenza che, a pochi giorni di distanza dagli episodi appena nominati e dai molti altri dello stesso genere che li accompagnarono, non poteva essere facilmente sospettata.
Coesione organica e capacità di resistenza ci inducono ad essere estremamente cauti prima di accettare le versioni di Caporetto condensate nello slogan dello sciopero militare o nelle pagine di Hemingway. Quella coesione organica e quella capacità di resistenza furono, al tempo stesso, favorite e sfruttate da un certo numero di generali capaci e valorosi i cui nomi vanno uniti a quelli dei tre che già abbiamo ricordato [non chiaro il riferimento. N.d.A.].
Antonio Di Giorgio, Donato Etna, Maurizio Gonzaga, Carlo Petitti di Roreto e Pierluigi Sagramoso che, tra l’altro, non ebbero responsabilità alcuna per lo sfondamento iniziale degli austro-tedeschi, condussero, in pianura, in poco tempo e in limitatissimo spazio, azioni di retroguardia che diedero a Luigi Cadorna il tempo per organizzare e condurre il ripiegamento dell’esercito italiano sulla linea del Piave e sulle posizioni dell’intricato massiccio del Grappa» (Francesco Fadini, Caporetto dalla parte del vincitore, op. cit., p. 444).
Sull’eroismo e sul sacrificio delle truppe italiane nel corso dell’offensiva avversaria e a seguito della “disfatta di Caporetto” si è scritto, ma non abbastanza. E soprattutto si è scritto poco, in rapporto all’enormità del dramma, a proposito delle esecuzioni sommarie di ufficiali, sottufficiali e soldati italiani durante e a seguito il fatto d’armi. Un passo per tutti riguardante Cadorna e non lui solo: «Particolarmente ingiusto e inumano fu, poi, il sistema repressivo delle decimazioni, sistema che implicava la fucilazione sia dei colpevoli, sia degli innocenti» (Saverio Cilibrizzi, La disfatta di Caporetto, op. cit., p. 96).
Che dire a proposito del citato Ernest Hemingway (1899 – 1961)? Noto giornalista e scrittore americano, è innanzitutto assunto e stipendiato dai servizi segreti statunitensi. Così sono bravi tutti a fare carriera! Basta essere convincenti nel ripetere a pappagallo le direttive ricevute.
Tresette col morto
Al di là delle risposte che si possono presentare, rimane il fatto che le responsabilità militari, civili e umane di Pietro Badoglio, dell’intero Comando italiano e di Casa Savoia sono e restano innegabili. L’offensiva austriaca fu arrestata sul Monte Grappa, dove i nostri soldati resistettero in quella fascia di poche centinaia di metri che ancora rimaneva in loro possesso.
Un vero miracolo d’eroismo. Il Fiume Piave fu passato in alcuni settori dalle truppe avversarie avanzanti, ma le loro teste di ponte dovettero poi arretrare sulla sponda est, alla sinistra orografica del fiume. Sull’altra sponda le truppe italiane si attestarono e si prepararono alla contro offensiva con valore e coraggio inauditi. E non certo grazie allo Stato Maggiore italiano.
A questo punto gli Stati Uniti d’America inviarono sul fronte italiano delle truppe di rinforzo, unitamente ad altri stati alleati, oltre alle truppe “straniere” già presenti. Certamente il re, stando ai documenti ufficiali, declinò un ulteriore aiuto da parte di truppe americane, ma sulla faccenda ci sarebbero da condurre circostanziate indagini per verificare con estrema sicurezza che cosa di fatto avvenne.
Un dato per tutti: sul Fiume Piave erano schierati gli Italiani, ma in retrovia, sul Fiume Mincio, ultima fascia utile per arrestare un nemico avanzante prima della Pianura Padana, vi erano Americani & Company. E posso ben immaginare che costoro sperassero nel totale cedimento del Regio Esercito Italiano lungo il settore Grappa-Piave, per poter intervenire e magari attestarsi così definitivamente in Italia.
Ma a voi non sorge qualche lecito sospetto?
Il solitario
Il generale Enrico Caviglia (1862 – 1945), al comando del XXIV Corpo d’Armata durante la tragedia di Caporetto, che cosa dice di quel drammatico 24 ottobre 1917?
Seppur tardivamente verga queste inequivocabili parole: «Oggi tutti restano silenziosi davanti alla nomina di Badoglio a capo di Stato Maggiore dell’Esercito, con l’incarico di organizzare la difesa della Nazione. Nulla di più burlesco che preporre alla difesa della Nazione l’eroe di Caporetto, il quale, essendo stato sfondato il suo corpo di armata, fuggì abbandonando prima tre divisioni, poi ancora una quarta, e portò il panico nelle retrovie.
La sua fuga, indipendentemente dalla sconfitta, causò la perdita di quarantamila soldati italiani fra morti, feriti e prigionieri, da lui abbandonati il 24 ottobre 1917 al di là dell’Isonzo. Tutti lo sanno e fanno finta di non saperlo» (Enrico Caviglia, Diario (aprile 1925 – marzo 1945), Gherardo Casini Editore, Roma 1952).
La confezione delle carte da gioco
La chiara domanda da porsi, da parte di chiunque studi la Storia, di chi oggi segua le commemorazioni della “Grande Guerra”, di chi desideri comprendere appieno il nostro attuale stato di precarietà, è innanzitutto la seguente: come mai Pietro Badoglio non viene esautorato dal comando a seguito della disfatta di Caporetto? Anzi, questo generale compie una incredibile carriera sia militare sia politica. Non solo: come mai Emanuele Filiberto di Savoia e Luigi Cadorna divengono Marescialli d’Italia?
Care Lettrici, cari Lettori, lascio a voi ogni speculazione sul perché della riuscita spallata “austrotedesca” al fronte dell’Isonzo.
APPENDICE:
Gas! La morte silenziosa
Scrive Vasja Klavora: «Ci si chiede se a Plezzo e a Tolmino gli italiani si aspettassero un attacco con armi chimiche. Ne avevano già fatto triste esperienza nel 1916, durante l’attacco austriaco sul Carso (…). Delle difese dai gas tossici si occupava allora il Comando Supremo italiano, che il 15 giugno 1916 emanò istruzioni precise per difendersi dagli effetti dei gas. Distribuirono fra le truppe numerosi consigli per la maschera antigas italiana e istruzioni sul comportamento in caso di attacchi tossici. Il loro giudizio era superficiale, convinti com’erano che quella italiana fosse la maschera migliore, capace di proteggere da qualsiasi specie di gas, lacrimogeno, starnutativo o urticante. Sostenevano che neppure gli alleati avevano maschere migliori.
Più volte, e precisamente il 18 novembre 1916, il 27 novembre 1916 e addirittura il 15 gennaio 1917, il Comando Supremo aveva avvertito i comandi della 2a e della 3a armata (e quindi anche le unità dell’alto Isonzo) della possibilità di un attacco chimico da parte degli austriaci. La maschera polivalente italiana non era in realtà una maschera vera e propria munita di filtro, ma conteneva granelli di sabbia, secondo il modello francese. Sotto il rivestimento di tela, imbevuto di olio di ricino e glicerina, venivano messi granelli di sabbia, anch’essi intrisi di olio, glicerina e sapone; venivano poi aggiunti granelli rossi contenenti combinazioni di zolfo e sodio. All’interno della maschera c’era uno strato di cotone imbevuto di solfato di sodio, che avrebbe protetto gli italiani soltanto dal cloro, mentre veniva considerata una maschera polivalente. In effetti, non avevano fatto molto per i soldati e in pratica le maschere erano inservibili» (Vasja Klavora, La Croce Blu. Ottobre 1917 l’attacco coi gas a Plezzo. Alto Isonzo 1915-1917, Nordpress Edizioni, Chiari 2002, p. 127).
Un passo sullo sfondamento: «Già prima dell’attacco, gli aggressori avevano calcolato quale sarebbe stata la concentrazione tossica sul terreno in proporzione al gas adoperato. Sarebbe stata incredibilmente alta, perché a sud, verso il ponte sull’Isonzo per ogni metro cubo di aria il fosgene era previsto ottocento volte più concentrato della densità sufficiente a rendere gli uomini inabili al combattimento. Possiamo renderci conto come nella gola di Naklo fosse stato spento in un istante qualsiasi genere di vita.
Dopo l’attacco, i tedeschi stessi poterono verificare l’efficacia dei gas. Nel settore destinato all’attacco chimico, cioè fra Plezzo e l’Isonzo, furono mandati tre gruppi di specialisti appartenenti al 35° battaglione tedesco di pionieri. Erano uomini particolarmente esperti e attrezzati in modo da non venir colpiti essi stessi dal gas. Le loro maschere anti-gas erano efficaci e li proteggevano benissimo» (Ibidem, p. 134).
Peer approfondire la tematica: Filippo Cappellano, Basilio De Martino, La guerra dei gas. Le armi chimiche sui fronti italiano e occidentale nella Grande Guerra, Gino Rossato Editore, Novale (Vi) 2006.