top of page

Cina: la libertà non deve essere un privilegio

Sebbene il concetto di “sicurezza nazionale” sia pressoché ambiguo, almeno secondo Arnold Wolfers, che lo considera (insieme alle definizioni, a esso strettamente legate, di “sicurezza” e “insicurezza”) di natura discutibile; il trattamento riservato dal governo cinese al Porto profumato d’incenso (traduzione letterale di Hong Kong) è, almeno per noi uomini liberi, chiaramente un comportamento oppressivo e volto alla censura, finalizzato a tarpare le ali alla libertà di cui la regione amministrativa godeva tramite la formula “un paese, due sistemi” [14].

 


Sono passati quasi quattro anni da quando la prima National Security Law è entrata in vigore a Hong Kong, da allora almeno 291 persone sono state arrestate con la scusa della sicurezza nazionale e il clima è, purtroppo, cambiato negativamente.


In vista delle Olimpiadi di Pechino, sempre con la scusa della sicurezza nazionale, è stata ulteriormente aumentata la repressione del dissenso, principalmente per tutelare e vendere all’Occidente l’immagine di una Cina compatta, in realtà seppur “ottenuta” solo attraverso la propaganda. [1-4].

 

Oggi, quasi un mese dopo l’approvazione della seconda NSL, meglio nota con il nome Article 23, si riscontra un ulteriore peggioramento delle condizioni della libertà a Hong Kong, nonostante il Governatore, John Lee, la reputi necessaria per tutelarsi da “chi invade casa nostra”.



Il Porto profumato d’incenso, dopo un passato da campione di democrazia e delle libertà personali – queste sono state alcune delle motivazioni che hanno spinto Snowden a scegliere proprio Hong Kong per le sue rivelazioni riguardanti la sorveglianza di massa americana del 2013 – si sta progressivamente spegnendo: gli attivisti per le libertà fondamentali, dopo aver guidato prima il Movimento degli ombrelli gialli e poi le proteste del 2019, si vedono ora costretti a esiliarsi dalla città al fine di tentare, seppur limitatamente, di riportare lo spirito democratico e salvarsi la vita. [5-6] [22]

 

Se questi cambiamenti hanno influenzato la vita ad Hong Kong solo in tempi relativamente recenti, i cittadini cinesi sono da molto costretti a vivere con la pressione costante di non poter uscire, o persino deviare, dal sentiero battuto, magari informandosi attraverso fonti estere o “non approvate” dal governo: questo clima di terrore è reso possibile dal Great Firewall of China, ossia una barriera virtuale che filtra le risorse esterne accessibili. I pochi privilegiati con la possibilità di aggirare questo blocco sono sotto stretto monitoraggio.

 


Lo stesso vale per i social media, anch’essi sottoposti a rigidi controlli posti a difesa dell’immagine e dell’opinione pubblica del Partito, tutto ciò vale persino per l’intera sfera religiosa, arrivando al punto di perseguitare i buddisti tibetani o gli uiguri musulmani. [7-10]

 

La forte presenza della cosiddetta sorveglianza di massa, da alcuni definita dataveillance, ossia il monitoraggio dei comportamenti dei singoli attraverso le abitudini e i dati condivisi volontariamente avendo accettato un contratto d’uso (ma, talvolta, anche involontariamente, e inconsapevolmente) è ciò che permette alla Cina di tenere attivo un sistema di Social Score dove ogni azione causa direttamente una ripercussione sulla vita dei cittadini.

 

Quanto descritto finora è reso possibili non solo per via delle citate NSL in vigore, ma anche per via di garanzie costituzionali: sebbene anche per l’ordinamento della Cina comunista i cittadini godano formalmente di libertà di espressione e di associazione, il tutto non deve in alcun modo andare in contrasto con quanto decide dallo Stato.


In questo senso, la Cina fa affidamento anche a una interpretazione fuorviata dell’articolo 19 della Convenzione internazionale sui diritti civili e politici [3] che, in principio, legittima gli Stati a imporre restrizioni e limitazioni di vario genere alla libertà individuale in favore di eventuali benefici per la sicurezza nazionale. Sebbene i limiti di manovra degli Stati siano stati oggetto di chiarifica da parte del UNHRC nel 2009, la Cina si ostina a farne un utilizzo arbitrario. [20]

 

Inoltre, stando al giugno del 2016, una risoluzione, sebbene non vincolante, delle Nazioni Unite proibisce misure atte a prevenire intenzionalmente l’accesso a informazioni online e le considera, perciò, violazioni dei diritti umani internazionali. Da ciò possiamo quindi capire quanto sia estesa la forza esercitata a fini repressivi da parte del Party-State presente in Cina.

 

Se da una parte l’Occidente non è stato, e tutt’ora non è molto d’aiuto, per motivi politici o necessità economiche, la tecnologia continua, malgrado le difficoltà, a compensare queste carenze: da un lato ci sono app come Signal (nonostante sia pressoché identica in termini di funzionalità, è considerata tecnicamente più sicura di Whatsapp), usate per organizzare o coordinare le proteste o più generalmente permettere di comunicare in maniera privata con le persone care, e sistemi come Tor, progettati per permettere a chiunque, anche con minime competenze informatiche, di aggirare la censura e garantire la privacy, fornendo così un accesso completamente libero da censura a internet.

 

Quali siano i rischi per coloro che aggirano le censure non è ben chiaro: oltre ad essere scritte in modo vago, senza particolari precisazioni sulle sanzioni o sulle pene, le leggi riguardanti la cybersicurezza o la “sicurezza nazionale”, escludendo l’ultima scritta specificamente per Hong Kong, non sono facilmente accessibili da noi occidentali: in base ai pochi articoli riportati da alcuni media, sappiamo che solo i casi “più gravi”, come quelli legati alle proteste degli attivisti, hanno portato a sanzioni amministrative, arresti o sequestri di persona mascherati da sparizioni.


Un celebre caso è quello riguardante la libreria Causeway Books dove cinque membri dello staff sono scomparsi in circostanze non chiare, con un caso confermato in cui il sequestro è avvenuto in Thailandia, fuori, quindi, dal territorio cinese o di Hong Kong. [13] Andremo perciò più nel dettaglio in un altro articolo specifico sulle violazioni dei diritti umani e il difficile lavoro dei legali.

 

Prendiamo ora in esame il caso Hikvision, una società facente, parte della SASAC, ossia in mano alla Commissione di supervisione e amministrazione degli assetti dello Stato Cinese, che si occupa di strumenti di sorveglianza con le capacità di riconoscere e segnalare proteste e dissensi o, peggio, riconoscere persone delle razze differenti. Per allontanarci momentaneamente dalla Cina e capire la gravità della situazione, strumentazioni come queste le incontriamo nella West Bank, in 134 procure italiane e persino su alcuni automezzi dell’ATM. [15-18]

 

Se nel primo caso le strumentazioni solo utilizzate per compiti di sorveglianza, che non starò a commentare in quest’articolo, e nel caso italiano lascio a voi riflettere cosa significhi averle sul territorio, anche confidando in un Paese democratico e libero è bene riflettere sulla possibilità che queste videocamere, quasi certamente connesse in rete, seppur protette, diano ai cinesi modo di migliorare i loro algoritmi di riconoscimento: un vantaggio enorme non solo rispetto all’Unione Europea, ormai in ritardo, ma persino rispetto degli Stati Uniti.

 

Chi ha letto 1984, il romanzo distopico di George Orwell, non potrà farà a meno di notare alcune somiglianze, eppure, nonostante sia quella dello scrittore sia quella cinese siano entrambe dittature criminali, fortunatamente, non siamo ancora giunti al livello della distopia.


Le violazioni dei diritti umani da parte del governo cinese sono ormai da tempo note e le cose al momento pare non stiano peggiorando ulteriormente, ma cosa ci garantisce che non lo possano fare? O persino, cosa ci garantisce che non possa accadere in qualsiasi altra parte del mondo? Basta dare uno sguardo alle notizie del New York Times o di Politico per poter leggere alcuni articoli sulla forte disinformazione russa a favore del conflitto in Ucraina. [11-12]

 

Nei Paesi in cui le libertà fondamentali non sono garantite, o sono de facto assenti, la privacy rappresenta un pilastro e una garanzia: il pilastro di supporto per un pensiero senza alcun tipo di filtro e la garanzia che tutto ciò rimanga un qualcosa di personale o riservato a pochi, lontano da occhi indiscreti, fornendo la certezza dell’assenza di ripercussioni. Spesso nei Paesi occidentali si considera la privacy una necessità di chiunque abbia il bisogno di nascondere qualcosa e, talvolta, si evidenziano le situazioni come quelle sopracitate.


Ma dall’altra parte invece, non potrebbe essere allo stesso tempo legittimo voler mantenere qualcosa solamente per sé o per poche persone a noi vicine? Abbiamo tutti vissuto un momento imbarazzante, anche piccolo, condiviso solamente con il proprio partner o qualche amico e se non fosse qualcosa di innocuo? Quante ripercussioni avvengono ancora oggi, causate anche solo in base a stereotipi o pregiudizi, per una foto o un messaggio finito sotto gli occhi della persona sbagliata?

 

Sebbene non si tratti di situazioni o contesti comparabili, la privacy ci permette di ottenere quel pizzico di libertà in più, offrendoci magari anche la possibilità di sentirci maggiormente a nostro agio a seguire la nostra volontà, un qualcosa che fa sicuramente piacere e a cui nessuno volontariamente rinuncerebbe. Possiamo quindi considerare la privacy come uno dei vari pilastri necessari per la presenza delle libertà fondamentali che ci spettano di diritto e come la garanzia che permette a chiunque di usufruirne senza subire alcun tipo di pressione o influenza esterna.

 

Nonostante nel nostro piccolo non possiamo fare molto, un minimo contributo può essere di supporto: da un lato possiamo sostenere progetti che permettono a chiunque si trovi in situazioni in cui la propria libertà è a rischio, come i sopra citati Signal e Tor, sempre alla ricerca di volontari, dall’altro possiamo comunicare a oltranza, che sia attraverso delle parole, delle immagini o persino degli hashtag, per diffondere la consapevolezza di come l’essere nella parte, permettetemi di dire, giusta del mondo ci abbia dato sia la possibilità sia il privilegio di poterci sentire liberi, condizione necessaria al fine di poter costruire un dialogo e un confronto costruttivo aspirante al progresso.


Philip Arena

 

[5] https://vimeo.com/82185231 (domanda a 07:52 - principalmente da 09:02 a 09:36)

[14] C. Peoples and N. Vaughan-Williams, Critical Security Studies. Routledge, 2020.

[20] E. Pils, Human rights in China: a social practice in the shadows of authoritarianism. Cambridge, UK: Polity, 2017.

[21] E. Pils, China’s Human Rights Lawyers: Advocacy and Resistance. Routledge Taylor and Francis, 2014.

bottom of page