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«Palazzo Chigi è un Campo Hobbit»: D’Agostino contro Giuli, Buttafuoco, Ferrara e Freda

Roberto d’Agostino, noto personaggio pubblico, fondatore dell’agenzia di gossip e notizie Dagospia e giornalista pubblicista - a quanto sembra - radiato dall’Ordine, è stato protagonista di un servizio-intervista a cura di Roberta Benvenuto, andato in il 23 novembre, nel quadro della trasmissione Piazza Pulita.



D’Agostino contro il piano di egemonia culturale del Governo:

Interrogato dalla giornalista, D’Agostino si è lasciato andare a considerazioni dapprima piuttosto banali sull’operare strategico di un governo e, successivamente, ad allusioni piuttosto meschine perché necessariamente frutto di ignoranza – si parli solo delle cose che si conoscono – di malafede o vera e propria devozione alla menzogna.


«Siamo passati dall’inossidabile amichettismo di sinistra a quello che oggi abbiamo in scena con l’arrivo della Meloni a Palazzo Chigi, cioè l’appartenenza dura e pura alla destra “non facciamo prigionieri”».


La difesa d’ufficio del Governo Meloni non è certo qualcosa in cui vogliamo investire il nostro tempo, si colga però l’occasione di queste parole pressapochiste per ribadire, in primis alla destra stessa e poi solo di riflesso alla sinistra o, se preferite, al nulla intellettuale e politico che tanti volti televisivi incarnano, che quando la destra vince le elezioni, a maggior ragione in un sistema democratico disegnato per osteggiarla, e raggiunge i luoghi del potere, ancorché i palazzi di Roma non siano probabilmente la sede del Potere pasoliniano, essa ha il compito – il dovere morale – di infiltrare il sistema con uomini degni, a patto che ne disponga, e non, come balbettano in coro i sinistri quando sconfitti e i sepolcri imbiancati del centro, farsi garante di una equidistanza – ignavia – sistemica.


«Non è una scelta sul merito dei personaggi […] qui si va solo sull’appartenenza se hanno il fez o se non lo hanno», prosegue brontolando l’intervistato.


Di uomini degni la destra, se questi signori non si offendono, ne ha almeno due e, nonostante il livore di quanto vi ho riportato e riporterò più avanti, – lo dico un po’ a malincuore – i loro traguardi professionali sono lavoro personale e non si inquadrano in una supposta – e in vero auspicabile – strategia culturale governativa che di fatto non si vede.

Parlo di Alessandro Giuli e Pietrangelo Buttafuoco che D’Agostino ha accostato democraticamente, in diretta televisiva su La 7, al Fez.


D’Agostino contro Alessandro Giuli:


Con Alessandro Giuli, dimenticando il Fez, il fondatore di Dagospia ci va piuttosto leggero:

«Al MAXI viene scelto Alessandro Giuli. Addirittura, lui uscì dal Fronte della Gioventù, perché lo considerava troppo moderato, per creare Meridiano Zero, un gruppuscolo di estrema destra», soppesate la diversa enfasi posta sui due momenti, «poi è diventato giornalista: il foglio, libero… e da lì va a finire al museo Maxi. Con quale competenza? Zero».

Che dire, effettivamente Giuli avrebbe potuto occuparsi di gossip e scrivere per Dagospia mentre ha firmato per i principali quotidiani nazionali, e i nostri lettori non sottovalutino Il Foglio del tempo di Ferrara di cui Giuli fu condirettore. Al MAXI dovevano proprio mettere D’Agostino e colleghi.

Della formazione e del lavoro di Giuli non serve parlare, «l’anonimo giornalista», così veniva definito in un dagoreport, è uno spirito, così come il Buttafuoco di cui poi, al quale azzardiamo dirci affini e che ammiriamo – nonostante il nostro compito a oggi sia sventolare, orgogliosi, le bandiere – per il servizio reso alle idee, rinunciando all’orgoglio identitario che spesso le emargina e infiltrando il sistema.


D’Agostino contro Buttafuoco:


«Seconda nomina del Campo Hobbit che è diventato oggi Palazzo Chigi, quale è stata? Pietrangelo Buttafuoco. Un giornalista. Messo alla guida dell’istituzione più autorevole, più internazionale, più complessa che noi abbiamo in Italia, la Biennale di Venezia».

Fatemelo dire, uno dei dispiaceri più grossi di cui il Governo Meloni è indirettamente responsabile è lo sdoganamento e l’introduzione nel dibattito pubblico e generalista di nomi, siano autori, maestri o momenti, che prima erano sussurrati piano in uno scantinato o a un banchetto da militanti, che il più delle volte non li avevano vissuti – e qui anche io in prima fila – o letti, ma che almeno ne parlavano con sacra reverenza.

D’Agostino, tra gossip e indiscrezioni, è sicuramente esperto di Palazzo – esperienza che non gli invidiamo certo –, ma sulla Destra o, meglio, sulla «cosiddetta destra», citando l’Editore che l’intervistato ha voluto scomodare, non sa veramente nulla.

Un Meridiano Zero di qua, un Campo Hobbit di là e poi: «questo è un libro di Pietrangelo Buttafuoco e l’editore si chiama Franco Freda, cioè il terrorista nero, quello di Ordine Nuovo. Fa questo libro che raccoglie gli articoli di Buttafuoco e la casa editrice si chiama Aristocrazia Ariana, lo ripeto Aristocrazia Ariana».


Invitiamo a leggere per non diventare come il D’Agostino, il libro in questione è Fogli Consanguinei pubblicato per i tipi delle Edizioni di Ar (2003, 88 pagg., 7 euro) con prefazione di Giuliano Ferrara, di cui l’accusatore dileggiava prima il giornale per sminuire Giuli e che, invece, non si fa problemi a citare brevemente per sminuire Buttafuoco, senza averlo capito in nulla: «il fascismo di questo straordinario scrittore civile <cioè buttafuoco> funziona come un antidoto allo sperpero retorico della nostra democrazia repubblicana».


Divagazioni su Giuliano Ferrara:



Quella di Ferrara è una penna fine, tanto abile che, come per magia, quando decide, per un attimo che ha dell’eterno, di sottrarsi, una volta ancora, alla tifoseria politica e all’esilio intellettuale nel quale si è confinato e ci fa regalo di un pezzo d’autore, ha la capacità di trasformare, è davvero magia, quel che a tratti ha del fogliaccio in un Foglio che noi giovani avventurieri del mestiere dovremmo leggere e rileggere fino a consumarlo.

Una penna fine che è anche uno stiletto finemente affilato, capace dell’ossimoro, che è cosa da maestri, e che gode di gusto nel pungere le coscienze del proprio pubblico liberal-e scandalizzandolo con l’elogio degli autori «fascisti». Lo ha rifatto recentemente in “Vico dei miracoli” fa venir voglia di andare a Napoli, parlando di Vico dei Miracoli di Marcello Veneziani (Rizzoli, 2023, 240 pagg., 20 euro): [l’estro di Veneziani] «scrittore fascista di talento […] sa come raccontare il dettaglio, romanzare la vita, l’infanzia, la città, il declino, si accompagna al suo rivendicato e pieno tradizionalismo ideologico ma lo supera in una circonfusione d’amore senza limiti verso chi ritrae nella sua debolezza di vincitore sconfitto, di morticino sociale che si fa pensatore immortale».


Divagazioni su i Giafar al-Siqilli e l'odio anti-islamico:


Mi sono fatto trasportare dalle suggestioni e dai pensieri. Come per Giuli, anche della formazione e del lavoro di Buttafuoco non è certo necessario che ne si parli noi.


Memorabile la risposta ad Augias, che in tre quarti della nostra redazione, dopo un mio primo approccio per chiedere una foto risoltosi nell’incapacità di proferire parola, avemmo il piacere di rammentargli nel contesto di un momento giovanile che cercava il Campo Hobbit, che è stato invece kermesse di Partito e in cui l’autore siciliano si era dimostrato, insieme al banco libri, unica garanzia delle nostre idee. Memorabile l’aver citato recentemente su Rai 3 Berto Ricci, maestro dell’allievo – affascinante ma indegno – Indro Montanelli a cui anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo dedicato un intervento che pubblicheremo prossimamente in forma scritta.

Più importanti però, forse, vincendo la tentazione estetica che sui social ci spinge a combattere il nemico con le sue armi, tutte quelle pagine scritte che non sono memorabili, nel senso che alla memoria non giungono immediatamente quando essa cerca un’arma icastica contro il nemico, ma che questa memoria, e tante altre, la hanno nutrita, silenziose, infiltrando le coscienze del sistema e protraendo la speranza.

Concludendo su Buttafuoco, al quale avranno fischiato le orecchie per tutte le volte che lo abbiamo nominato, permettete a un cattolico – ortodosso e peccatore – di riportare alla vostra attenzione di lettori, in questo tempo in cui la guerra civile in Terra Santa riaccende l’odio anti-islamico della destra, che è poi fondamentalmente odio liberale, laicista e anti-religioso – esattamente come quello anti-ebraico, in barba a certe balle – un fatto che D’Agostino ignora e che in generale pochi rammentano.


Il fondatore di Dagospia lo ha presentato, insieme a Giuli, attore di quel piano – che, ricordo, noi auspichiamo secondo le condizioni di cui prima – di amichettismo e lottizzazione macchinato dal Governo Meloni, eppure, quando nel 2015 il nome di Giafar al-Siqilli, Giafar il Siciliano, così si chiama Pietrangelo Buttafuoco da quando si è perso nella «Tradizione» che affonda nelle radici arabe siciliane, fu ventilato con estrema serietà da Noi con Salvini come possibile candidato alla presidenza di Regione Sicilia proprio Giorgia Meloni, che pur disse di conoscerlo e apprezzarlo, pose il veto blaterando di un «cedimento culturale a quei fanatici che vorrebbero sottomettere noi infedeli» e proseguendo a citare – non me ne vogliano gli amici – lo stucchevole, forse perché abusato, Sottomissione di Michel Houellebecq.


Sottomissione che, nel silenzio di appassionati, critici e guru politici deve non poco al Campo dei santi del connazionale Jean Raspall, edito in Italia delle medesime Edizioni di Ar (1889, 420 pagg. 20 euro) di cui prima e a breve, e a cui si deve riconoscere, nonostante il razzismo stucchevole, che però è più figlio del sentir debole l’Occidente che dell’odio dello straniero, perché l’autore era esploratore e cattolico, di non essersi arreso al nulla politico di Marine Le Pen.


D’Agostino straparla di Franco Giorgio Freda e delle Edizioni di Ar:


Sono partito con l’idea di scrivere un pezzo veloce su trenta secondi di intervista, mi sono lasciato trasportare e poi, scopertomi a farlo, ho colto l’occasione per inserire quante più considerazioni che difficilmente possono trovare spazio altrove; concludiamo ora ritornando alle parole di D’Agostino e divagando un'ultima volta.


«L’editore si chiama Franco Freda […] quello di Ordine Nuovo», «la casa editrice si chiama Aristocrazia Ariana», l’introduzione è di Giuliano Ferrara, alfiere della democrazia liberale, come meglio si poteva accompagnare un libro che, tra il resto, riflette sulla democrazia?


È lapalissiano, delle colpe di Freda risponde e risponderà in morte Freda, degli errori teoretici risponde e risponderà in morte Freda; non c’è molto da aggiungere.


Il 9 dicembre è il sessantesimo anno di attività delle Edizioni più volte citate e quella sarà un'ottima occasione per trarre le somme di un'attività editoriale prolifica e, nel suo modo particolare, incisiva sul pensiero di Destra; concentriamoci qui brevemente sulla natura del suo nome a proposito della quale D’Agostino la spara davvero grossa.


Se «aristocrazia» e «ariano» non sono certo vocaboli estranei al linguaggio e alla prosa dell'Editore, che da sempre rifiuta, però, il razzismo su base biologica in favore della sua concezione spirituale, secondo la lezione – arrivata piuttosto tardi – di Julius Evola; nulla, se non la fantasia e le ipotesi temerarie, permette di associare la radice «Ar» all'accostamento delle due parole.


O meglio, «Ar» è radice, e quindi origine, di ognuna di queste due parole prese singolarmente, ma è decisione arbitraria asserire che associato a «gruppo» o a «edizioni» implichi «aristocrazia ariana»; a Dagospia si muovo goffamente tra l'ignoranza, il sentito dire o la menzogna, giocando questa volta, probabilmente, sull'idea di «aristocrazia comunista» teorizzata da Freda.

«Ar», in realtà, è radice indoeuropea di «modo appropriato», «forma» nella comprensione della filosofia greca, insieme a «Ṛ», radice sanscrita di «muoversi», compone «Ṛta», in sanscrito, tema centrale della poetica mitico-religiosa dei Veda più antichi come il Rigveda che significa, anticipando il più "moderno" «dharma», «ordine cosmico» o – consapevoli che qualcuno obbietterà sia una forzatura – «logos», se la sierotipizzazione della spiritualità orientale ci impedisce di coglierne il significato profondo. Ṛta, che si ritrova nella poetica mitico-religiosa iranica dell'Avesta e nello zoroastrismo, diviene attributo dei divini, che sono tali in forza dell'essere giusti e in quanto aderiscono all'Ordine, e quindi, per estensione, è attributo dei giusti o pii.

La radice, che, riassumendo ciò che richiederebbe pagine di approfondimento, è un concetto proto-indoeuropeo, comune alle culture e alle lingue dei popoli indoeuropei, nelle intenzioni di Freda, possiamo supporre ragionevolmente dal resto della sua opera, ha valore normativo e, insieme, orienta e pone sotto l'insegna dell'Ordine «dorico», per usare un vocabolo che gli è caro, «il gruppo» e le «edizioni».



Neghiamo a un assassino di innocenti, che ancora rivendica le proprie gesta illuso di aver combattuto il sistema, la forza di dirsi depositario e interprete di verità tanto antiche ed eterne.


Detto questo, se l’assassino di innocenti Pertini fu Presidente della Repubblica, Franco Giorgio Freda può essere editore. Quando il mondo tornerà all’Ordine ci saremo liberati sia dei Pertini che dei Freda, i quali, nonostante le vette di stile e i tratti di genialità che li rendono estremamente affascinanti, umanamente sono la medesima cosa.


Il giorno della nomina di Buttafuoco, Dagospia dava prova di dissonanza cognitiva, sintetizzando così – è un taglia e cuci di citazioni sbocconcellate – la sua opinione su Freda: «è un “uomo di grande cultura”, dice Buttafuoco del suo editore, “inarrivabile, solitario e anche spiritoso” [...] Ma è anche un intellettuale fumoso e incomprensibile quando sentenzia che “la ricerca dell’originario è una conversione della forma mentale che si volge all’origine e all’alto e non al futuro e al basso come effetto dell’entropia …”». Salvo poi alludere ignobilmente all’autore siciliano come un discepolo del terrorista e non un interlocutore dell’intellettuale.

Insomma, dal fondatore di Dagopia non ci aspettavamo di certo il sanscrito, piuttosto che quanto detto, però, avremmo preferito la dignità del silenzio.

Matteo Respinti

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