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Democrazia totalitaria, sull'intervento del Presidente Mattarella e sulla risposta di Matteo Salvini


«Democrazia. Parola di uso comune, anche nella sua declinazione come aggettivo. È ampiamente diffusa. Suggerisce un valore. Le dittature del Novecento l’hanno identificata come un nemico da battere. Gli uomini liberi ne hanno fatto una bandiera».


Si apre così l’intervento del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla Cerimonia di apertura della 50° edizione della Settimana Sociale dei Cattolici in Italia. Quell’intervento che, per intenderci, ha suscitato la risposta caustica di Salvini e, conseguentemente, una specie di levata di scudi attorno al Presidente.


Non vi è libertà al di fuori della democrazia: liberi sono gli uomini che nel secondo conflitto mondiale avrebbero fatto della democrazia una bandiera, gli altri son tutti servi che vanno all’inferno e questo nonostante la storia - quella dei libri e non della propaganda istituzionale - ci racconti di una Resistenza, quandanche nobile, sicuramente spaccata, al meno, tra monarchici e ambasciatori del regime sovietico.


Poco, importa alla retorica istituzionale del Presidente, che il comunismo nascesse, esattamente come il socialismo nazionale, in odio a quelle che Benito Mussolini chiamava «democrazie plutocratiche dell’Occidente». D'altronde non ci sarebbe mito fondativo della patria repubblicana se si raccontasse che la democrazia, così come la intende Sergio Matterella, fu un ripiego per buona parte dell’Assemblea costituente: i partigiani comunisti e i loro teoreti, che sognavano la “vera democrazia” (quella sovietica), accortisi, a guerra finita, che l’alleato americano non avrebbe acconsentito al Soviet di Roma, ripiegarono sull’impostazione liberal-democratica, che fu subito cara ai confratelli italici, fossero anche di destra, cattolici o di centro, freschi di spirito risorgimentale.  


Dicevamo, democrazia che, per come la intende Mattarella, ovvero per come la intende l’Occidente liberal (il vero trionfo della Rivoluzione), sia ben chiaro, non è da intendersi solo in quanto forma politica, questo non è sufficiente, bensì in quanto struttura integrale, totalitaria.


Democrazia, emerge dall’intervento, ma non è una riflessione originale, è il pensiero compiuto (la “fine della storia”) della modernità, leggasi tra i tanti Habermas, non sono le elezioni. Democrazia è il perimetro stesso della legittimità: non è democratica l’elezione legittima di un antidemocratico, come non è democratico un padre che, pur partecipando diligentemente alla vita politica, istruisce il figlio secondo i valori, per esempio, della gerarchia e della disuguaglianza.   


«Alexis de Tocqueville affermava che una democrazia senz’anima è destinata a implodere, non per gli aspetti formali, naturalmente, bensì per i contenuti valoriali venuti meno», racconta correttamente il Presidente.


Ma non ricorda, o non sa, o sa perfettamente, che il grande Alexis de Tocqueville dell’America temeva più di tutto proprio lo spirito democratico, perché lui, aristocratico liberale (tanto da vergognarsi del proprio sangue blu), lo spirito democratico lo aveva conosciuto bene nella sua Francia. Lì dove l’amore dell’uguaglianza aveva dimostrato il proprio affetto ghigliottinando prima il re e poi gli altri eguali. Il Progresso era troppo giovane e, inopportunamente, usava ancora massacrare i migliori e gli innocenti sulla pubblica piazza.


Al contrario di quel che vorrebbe il Presidente, l’anima della democrazia americana, che Tocqueville eleva a garante del non ripetersi della sorte di Francia, è la nobiltà delle genti statunitensi, la loro disposizione alla disuguaglianza naturale e al suo gemello, l’aristocrazia naturale. A reggere le sorti della forma democratica americana, ancorché si potrebbe discutere (contro Tocqueville) perfino sull’opportunità di ritenerla tale, è lo spirito, ordinato, non-democratico dei suoi cittadini. Uno spirito democratico che abitasse la forma politica democratica, riflette Tocqueville ne La Democrazia in America, condurrebbe al sovvertimento. E di fatti, dal ‘61 al ‘65, gli Stati del Sud combatterono, e persero, contro una rivoluzione dell'America che il filosofo francese aveva conosciuto.


Alludevo prima a un possibile conoscere la reale riflessione di Tocqueville e al tacerla volontariamente, evidenzio qui, in maniera chiara, un effettivo non conoscere del Presidente, che è piuttosto imbarazzante: «democrazie imperfette vulnerano le libertà: ove si manifesta una partecipazione elettorale modesta. Oppure ove il principio “un uomo-un voto” venga distorto attraverso marchingegni che alterino la rappresentatività e la volontà degli elettori».


Così Mattarella tenta di esorcizzare l'avvento del premierato e del presidenzialismo.


Sperando che, dopo aver parlato di democrazia totalitaria, il lettore non si stupisca più nel leggere di un Presidente che parla della libera scelta di non votare come di un attentato alla natura stessa della democrazia; vorrei ricordare che negli Stati Uniti d’America, a cui l’oratore ha accennato in precedenza attraverso le riflessioni di Tocqueville (ecco perché si può discutere, in positivo, del ritenere quella statunitense una forma politica democratica), per l’elezione Presidente, quindi per l’elezione del potere esecutivo, non vige il principio “un uomo-un voto”. Con buona pace dei girondini come Mattarella e di chi, dall’altro lato della barricata, indica l’impostazione statunitense come origine di tutti i nostri mali.


Risparmio, per spirito di carità, di riportare e analizzare il proseguo dell'intervento, in vero rimane la maggior parte del testo. Carità non tanto nei confronti del Presidente, uomo rispettabile e dalle convinzioni salde che, sicuramente, non teme le critiche di un ventunenne sconosciuto. Bensì spirito di carità per chi, invitato debitamente il Presidente della Repubblica, ha sorriso e applaudito a un discorso che fa di Tocqueville, di Bobbio, di Popper, di Dossetti, di Papa Pio XIII, di Don Milani, di Papa Francesco, del Cardinale Zuppi e di chi più ne ha più ne metta un'unica, e uguale, melma democratica.


Mi si conceda, invece, in conclusione, di rivolgere l’attenzione a Matteo Salvini. Il Vice-premier, Ministro dei trasporti e capo politico della Lega si è scagliato, stizzito, contro l’unica frase probabilmente condivisibile al cento per cento del discorso di Mattarella, più perché afferma un principio di una banalità disarmante che per ragioni politico-ideologiche, rispondendo: «siamo in democrazia, il popolo vota, il popolo vince. Non faccio filosofia, ma politica».


Oibò, girondino, insieme al Presidente della Repubblica, è anche il suo “nemico” Matteo Salvini. Fortuna vuole che sia poi intervenuto anche il Presidente del Consiglio, che ha garantito per il discorso di Mattarella e ha affermato di condividerne spirito e valori.


Matteo Respinti

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