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Dove non arriva il dollaro

Dal 17 marzo 2023 sulla testa del capo di Stato russo Vladimir Putin pende un mandato di arresto della Corte penale internazionale. Ufficialmente l’accusa sarebbe dovuta alla deportazione di bambini dai territori ucraini occupati, ufficiosamente è il mezzo più efficace per i Paesi aderenti allo Statuto di Roma per trasferire la guerra anche nel campo giuridico.



In realtà poco o nulla interessa agli Stati europei della custodia dei minori: in quella che gli israeliani sono ancora capaci di definire “guerra al terrorismo” sono stati uccisi più di 11.500 bambini: pur vero che l'età media della popolazione palestinese è relativamente molto bassa, è difficile immaginarli tutti affiliati di Hamas.


La netta condanna di un capo di Stato, del singolo, può darci modo di soffermarci sulle responsabilità del moto diveniente storico: azione collettiva o individuale? Somma delle volontà popolari o particolari? Quali sono i veri interessi dell’Occidente?


Partiamo da un romanzo storico non qualunque. Due parole. Guerra e Pace.


Tolstoj progettò la stesura del romanzo nel 1863, a distanza di poco meno di cinquant’anni dalla battaglia di Waterloo: il giorno in cui bastarono otto ore perché fosse chiaro che il sogno imperiale di Napoleone fosse stato definitivamente travolto dalla settima coalizione antifrancese. Il romanzo di Tolstoj viene pubblicato dapprima tra il 1864 e il 1865, sulla rivista Russkij vestnik, un’edizione a cui poi seguono pesanti rimaneggiamenti che conducono alle edizioni del ‘73 e dell’86.


Igor Sibaldi lo definisce «un non-romanzo, addirittura un non-testo, civetteria e insubordinazione programmatica». È impossibile inquadrare l’opera di Tolstoj perché dapprincipio è impossibile inquadrare l’uomo, teso tra nichilismo e misticismo religioso.


Tolstoj non solo scrisse di guerra ma vi prese anche parte: partito per il Caucaso nel 1851, partecipò all’assedio di Sebastopoli durante la Guerra di Crimea. Le esperienze sul campo gli hanno permesso di maturare una visione storiografica complessa e vivace: in Guerra e Pace la scena è tutta del popolo, di chi agisce dietro le quinte e muove inconsapevole le fila della storia. Napoleone e Kutuzov si fronteggiano come fantocci.


Nell’epilogo del romanzo, per spiegare la genesi del movimento storico, l’autore ci regala una metafora memorabile: le masse sono una nave che viene sempre preceduta dagli spruzzi dell’acqua, i grandi nomi che i popoli producono.


«Ovunque essa svolti, vi saranno sempre quegli spruzzi a precedere il suo movimento.»


Napoleone viene visto come un burattino della storia al pari del fante, perché la storia origina dalla miscela naturale di libertà e necessità e nessun interprete è totalmente padrone del suo operato.


Una conclusione accostabile a quella di Hegel, che vedeva nei grandi uomini il risultato dell’astuzia della ragione, mezzi di cui essa si serve per condurre alla manifestazione dello Spirito. Nella dialettica hegeliana mai è concessa la totale indipendenza del signore nei confronti del servo, il grand’uomo è paradossalmente servo del servo. Napoleone dipende dai suoi soldati come i soldati dipendono dal suo comando.


Ancora Tolstoj: «l’origine del potere dovrà trovarsi fuori da quel personaggio - ovvero nel particolare rapporto con le masse nel quale viene a trovarsi il personaggio che detiene il potere».  


Magari i principi della ricerca storica tolstojana saranno arrivati anche all’orecchio di Dario Fabbri, che non nasconde il suo interesse per la dialettica hegeliana ed è l’iniziatore di un approccio geopolitico che definisce prende il nome di “Geopolitica Umana”. Un metodo fondato sulla separazione tra sovrastruttura (l’apparato burocratico-politico) e struttura (l’insieme effettivo degli orientamenti sociali).


Scrive, da direttore della rivista Domino: «Le collettività decidono sempre della propria traiettoria, esprimendosi ogni giorno con ethos e pulsioni, in presenza o assenza di elezioni. I governanti, se autoctoni, ne sono semplice filiazione. Nient’altro. [...] Non è stato Biden a creare l’America o Putin la Russia, ma il contrario».


L’Occidente vuole condannare Putin perché gli è impossibile condannare il popolo di cui non può più sospettare la corruttibilità, pena il fallimento di ogni ideale democratico, che presuppone la ragionevolezza del suffragio universale.

 

La condanna in effetti non è solo del capo di Stato ma dell’intero modus vivendi russo, dell’idea di imperialismo terrestre, che si contrappone a quello oceanico-economico, tipicamente angloamericano. Un conflitto già rintracciabile nelle Guerre napoleoniche e ancor prima nelle Guerre puniche. Quello a cui assistiamo è la riproposizione, in termini talvolta diversi, dello scontro tra Roma, la potenza fondata sull’aratro e il gladio, e Cartagine, la capitale dell’oro.

 

Allora Washington e Bruxelles sono nemici di Putin o della Russia? Fondamentalmente della Russia, di cui vogliono annientare essenza ed esistenza. È questo che fanno il liberalismo e lo “sporco” democratismo americano che fagocita e distrugge ogni identità in nome della tolleranza, lo stendardo giustificativo del libero mercato. La democrazia è ben altro.


Ciò che vogliamo dimostrare è che mai l’Occidente si adopera per la pace mondiale, ma che piuttosto preferisce gettare benzina sul fuoco: perfido esempio di un circolo vizioso nel quale per muovere efficacemente l’economia liberista ci sia bisogno continuo di guerre. Biden non vuole allargare il conflitto in Medio Oriente e intanto bombarda Iraq e Siria.


Al limite dell’assurdo è credere che sostituendo il dispotismo putiniano si possa convertire la popolazione russa all’ortodossia democratica: è la speranza ingenua con cui si vuole comprare l’opinione pubblica. Chi ci assicura che il popolo stesso non si riconosca effettivamente nelle scelte del despota? Dobbiamo affidarci ai rapporti della CNN?


Eppure l’idea di impero non ha mai davvero abbandonato l’immaginario occidentale, semplicemente si ritiene che l’unica via legittima della sua affermazione sia la violenza economica. Gli Stati Uniti sono costretti a intervenire militarmente dove non arriva il dollaro. L’economicismo statunitense è la prova lampante delle trasformazioni camaleontiche della morale del gregge nietzschiana, che corrono su un ideale filo rosso che ha origine dall’Ebraismo e dal Cristianesimo: è naturale che in un’epoca come la nostra il richiamo alle formule liberali e umanitarie sia diventato un mantra per assicurarsi il potere.


Ormai è chiaro: quanto più nervoso si fa il quadro internazionale tanto più sarà necessario interrogarsi sul dilemma della responsabilità.

 

Possiamo mai accontentarci delle risposte che ci suggeriscono da oltreoceano?


Gabriele Pannofino


I fatti riportati sono oggettivi, come lo sono le valutazioni che da essi seguono. La caratterizzazione della Russia come realtà tradizionale, il rifiuto di tutto ciò che ha portato alla modernità occidentale, e la sovrapposizione del libero mercato con il mondo globalizzato a trazione statunitense, come del resto l'effettiva esistenza di quest'ultimo, sono da sempre tema di confronto, e scontro, a destra e continuano, giustamente, a esserlo nella nostra Redazione.

La Direzione

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