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Eccidio di Porzûs: Italia e democrazia, i finti amori del PCI

Volontà di democrazia? Ma dove? Semmai volontà di imporsi, anche al costo di eliminare i propri compagni d’arme. É questo, purtroppo, l’atroce destino riservato a 17 partigiani appartenenti alle Brigate Osoppo, cattoliche e socialiste, assassinati senza pietà a Porzûs, nel Friuli-Venezia-Giulia.


Il comando della divisione Garibaldi Natisone insieme a quello del IX Corpus sloveno. Da sinistra, Gino Lizzero, il Commissario del IX Corpus Viktor Avbelj, il comandante del IX Corpus Joze Borstnar, il comandante della Natisone Mario Fantini, il commissario della Natisone Giovanni Padoa.
Il comando della divisione Garibaldi Natisone insieme a quello del IX Corpus sloveno. Da sinistra, Gino Lizzero, il Commissario del IX Corpus Viktor Avbelj, il comandante del IX Corpus Joze Borstnar, il comandante della Natisone Mario Fantini, il commissario della Natisone Giovanni Padoa.

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Il Caso Porzûs: un Eccidio tra Partigiani


Volontà di democrazia? Ma dove? Semmai volontà di imporsi, anche al costo di eliminare i propri compagni d’arme. É questo, purtroppo, l’atroce destino riservato a 17 partigiani appartenenti alle Brigate Osoppo, cattoliche e socialiste, assassinati senza pietà a Porzûs, nel Friuli-Venezia-Giulia.

 

Quali gli esecutori di questa vile azione? A qualcuno potrebbe venir facile rispondere “i fascisti repubblicani”, eppure no. Furono altri partigiani, comunisti per la precisione. In una parola, i gappisti - termine che indica i membri dei Gruppi d’Azione Patriottica.

 

Si badi bene: costoro di patriottico non avevano nulla. E non si tratta di un’affermazione di parte, come potrebbe suonare all’apparenza, ma di una verità incontrovertibile. La motivazione alla base dell’eccidio non furono, certo, le dispute ideologiche - sono gli anni immediatamente antecedenti al frontismo, l’unione d’intenti tra socialisti e comunisti -, bensì un’infame questione di natura territoriale. A qualcuno, i comunisti, l’alto concetto della “sacralità dei confini” andava stretto. E cosa c’è di più importante della difesa strenua delle proprie frontiere per un vero patriota?

 

L’Obiettivo del PCI: predominio ideologico a costo di svendere la patria


Era noto a chiunque, oramai, che il regno di Jugoslavia fosse caduto sotto il controllo dei partigiani dell’auto-proclamatosi maresciallo Tito e proprio a lui si rivolgevano, senza mezzi termini, i comunisti nostrani quando c’era da trattare il delicato problema delle terre di confine.

 

Del resto, i rossi non nascosero mai di preferire un Friuli jugoslavo, ma governato da un regime ideologicamente gradito, a uno italiano, dominato, invece, da un regime che la logica “CLNista” lasciava intendere destinato alla democrazia, naturalmente sgradita ai comunisti. Tutto, insomma, ruotava sulla conquista di un cinico predominio ideologico, che non esitò neppure un momento di fronte all’ insana prospettiva di cessione di porzioni di Italia per “giusta causa”.

 

Chiaramente, per i difensori dell’inviolabilità della sovranità nazionale, non c’era ragione che potesse tenere, ma per il PCI una tale considerazione non aveva o non doveva avere il benchè minimo peso.

 

Un attaccamento simile alla patria, d’altronde, appariva non solo futile, ma perfino controrivoluzionario: l’internazionalismo doveva a tutti i costi fungere da stella polare nella prassi politica comunista e, pertanto, la nazione, con annessa la sovranità annessa, altro non era che un vuoto concetto di natura borghese, tranquillamente violabile o più, semplicemente, rimpiazzabile.

 

L’Ordine di esecuzione e il ruolo del PCI


Il luogo dell'eccidio.
Il luogo dell'eccidio.

Questo è proprio quello che aveva in mente, tra i tanti comunisti, Alfio Tambosso, all’epoca dei fatti vice segretario del PCI udinese, il 28 gennaio 1945, nel momento della consegna a Mario Toffanin, comandante designato del conglomerato di battaglioni gappisti, di un infausto ordine: raggiungere il luogo isolato di Porzûs, ove era situato il comando delle Brigate Est della Osoppo, porsi sotto il comando del IX Korpus sloveno, guidato da Tito, e ammazzare a bruciapelo “i nemici della rivoluzione”. Il tutto avvenne tra il 7 e il 18 febbraio 1945: 12 giorni di infame crudeltà.

 

Quale motivazione addurre? Banalmente, il crimine per cui allora si veniva fucilati senza esitazione, ossia la collaborazione con i soldati nemici della RSI, in questo caso particolare collaborazione con la X^ Flottiglia MAS. In alibi perfetto in tempo di guerra, molto meno in tempo di pace. Con l’avvento della democrazia la notizia, e quindi lo scandalo generale, si espanse a macchia d’olio e, il 6 aprile 1952, i responsabili furono condannati da parte della Corte d’Assise di Brescia, chi all’ergastolo, chi a 30 anni di reclusione.


I processi: assassini, ma non traditori della patria


Tutto é bene quel che finisce bene? Macché, naturalmente si andò in appello ed ecco sorgere una nuova onta nei confronti delle vittime: si decretò che “pur essendo (l'azione compiuta) subiettivamente ed obiettivamente diretta al fine del tradimento” essa non determinò “una situazione di pericolo per l'interesse dello Stato al mantenimento della sua integrità territoriale”.


Ciò significa che quanto realizzato, l’eccidio, non era da considerarsi affatto tradimento perché gli eventi storici presero un corso diverso. E questo fu un grave errore in quanto esclusivamente legato a un’interpretazione contestuale a posteriori. D’altro canto, basti considerare come all’epoca in cui si svolsero le tragiche vicende non si aveva una chiara percezione di cosa avrebbe riservato il futuro, ma, di certo, il timore per un’annessione del Friuli alla Jugoslavia era materialmente palpabile.

 

Perciò, se quanto riferito non risulta configurabile come facilitazione degli interessi jugoslavi - in una parola sola tradimento - come altro può essere definirlo?

 

Per non farsi mancare nulla, nel 1957, il processo arrivò fino alla Suprema Corte di Cassazione e questa confermò, sostanzialmente, quanto stabilito a Firenze, con la novità di un processo per tradimento da tenersi a Perugia. Solo che quest’ultimo non si concretizzerà mai.

 

La copertura democristiana agli assassini comunisti


Nel 1959, l’allora democristiano Presidente della Repubblica, Giovanni Gronchi, decise di concedere l’amnistia agli imputati per tutti i reati commessi, compresi quelli politici. Insomma, oltre al danno la beffa, tenendo conto che la quasi totalità dei colpevoli non passò neanche un giorno in carcere perché o riparati all’estero (Mario Toffanin fuggirà in Jugoslavia e in Cecoslovacchia) o protetti politicamente. Da chi? Dal PCI, ovviamente.

 

Per mezzo di un calcolo spietato, piuttosto che condannare fermamente, come ci si sarebbe aspettati da qualsiasi partito di buon senso e davvero democratico, si preferì la strada della menzogna spudorata.

 

Su L’Unità, quotidiano ufficiale del PCI, difatti, si diede grande risalto ai risultati tutto sommato favorevoli dei processi senza il benché minimo tentativo di applicare correttivi a siffatti eccessi, perché il caso Porzûs di certo non fu l’unico, ma é stato, di sicuro, il più emblematico nel permetterci di comprendere come, in realtà, il tanto manifesto amore dei comunisti verso l’Italia (con tanto di tricolore nel simbolo di partito) e la democrazia altro non sia stato che una spudorata finzione.

 

Oggi l’unico modo per rendere giustizia alle 17 vittime dell’eccidio di Porzûs, è raccontare l’azione comunista per quello che effettivamente é stata: un tradimento ai danni dell’Italia e del suo popolo.


Antonio Bonasora

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