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Estradizione negata, Parigi complice del terrore rosso

Martedì 28 marzo la Corte di cassazione francese ha confermato, con pronunciamento definitivo, il rifiuto di consegnare alle autorità italiane i 10 terroristi rossi, che, già processati, in Italia devono ancora scontare il proprio debito con la giustizia mentre oltralpe vivono tra libertà piena e libertà vigilata dagli Anni di piombo.


L’evidenza dei fatti ci invita a riconoscere senza mezzi termini che il Paese, la Corte di cassazione, le Corti che rifiutarono l’estradizione nei gradi di giudizio precedenti, il Governo e tutta la classe politica francese – che tace ad oltranza – sono da considerare fiancheggiatori e complici tanto del fenomeno del terrorismo rosso nel suo insieme quanto di ogni omicidio per cui i terroristi rifugiati sono stati condannati; a chi potrebbe trovare questo giudizio esagerato o affrettato chiedo di attendere il momento in cui saranno fatti i nomi ed i capi d’accusa dei terroristi e, per il momento, ricordo che se la magistratura italiana intende – a ragione – processare i fiancheggiatori, “semplici” amici che si preoccupavano del sostentamento, di un Messina Denaro malato e, da quel che appare, ormai fuori dai giochi, allora il rigore logico ci impone, senza via di scampo, di giudicare in questo modo il sistema francese.


L’iter giudiziario:

Il pronunciamento del 28 è la conclusione di un percorso iniziato nel 2020 quando le autorità italiane avanzarono la richiesta di estradizione di diversi tra terroristi rossi e militanti della sinistra extraparlamentare che da anni risiedono in Francia come liberi cittadini, ma sui quali in Italia pendono condanne che arrivano fino all’ergastolo, comminate tra il 1983 e il 1995. Prima della pronuncia definitiva, a destare scalpore nel nostro Paese era stato, l’anno scorso, il rifiuto della Chambre de l’Instruction di Parigi “motivato”, esattamente come quello della Cassazione, accusando l’Italia – qui, se non fosse tragica, la vicenda si potrebbe dire comica – di aver violato gli articoli 6° e 8° della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Se volessimo sintetizzare potremmo dire che la Francia rifiuta l’estradizione perché accordarla la renderebbe complice degli abusi delle violenze di cui l’Italia si è macchiata nei confronti di questi 10 terroristi, uomini e donne condannati sulla base di prove e processi. I capi d’accusa che le Corti francesi muovono all’Italia riguardano, come detto, la violazione di due articoli della CEDU, l’articolo 6°, «Diritto a un processo equo», che, tra il resto, così come interpretato dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, impegna gli stati firmatari a concedere l’estradizione solo quando essa non comporti un evidente diniego della giustizia. Questo evidente diniego della giustizia che la magistratura francese contesta all’Italia è sostanzialmente l’aver processato e comminato le pene ai terroristi in contumacia, quella fattispecie che si verifica quando, indipendentemente dalla volontà dell’accusa e del tribunale, l’imputato, a cui è stato notificato correttamente l’obbligo di costituirsi davanti a un giudice, si rifiuta di prendere parte al processo perché magari, – ed è il nostro caso – consapevole della propria colpevolezza, ha preferito rifugiarsi in Francia e progetta già il proprio futuro. A far cadere le accuse e ribadire la complicità del sistema francese basterà portate all’attenzione del lettore tre piccoli elementi fondamentali: il processo in contumacia è un processo che si svolge in piena regola e in cui l’imputato assente ha naturalmente diritto a una difesa che rispetti tutti i crismi, almeno 1 dei 10 terroristi per i quali è richiesta l’estradizione, Pietro Stefani, è stato processato tradizionalmente e non in contumacia e – ciliegina sulla torta – l’ordinamento francese stesso, anche se in circostanze diverse da quello italiano, prevede il processo in contumacia. Il secondo articolo della CEDU dietro cui si maschera il rifiuto francese è l’8°, «Diritto al rispetto della vita privata e familiare», e qui tanto il rigore quanto il gusto del grottesco mi costringono a riportarlo per intero: «1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza. 2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui». Non vedo cosa sia necessario aggiungere, è l’articolo stesso a dare ragione della richiesta di estradizione.


I 10 terroristi:

Dimenticando per un attimo l’ipocrisia e la complicità francese, vorrei spendere qualche riga per delineare il profilo di questi 10 condannati; se la persona comune e chi – come il sottoscritto – è nato dopo i fatti tendono spesso a dimenticare o proprio a non conoscere quel momento della storia nazionale che furono gli Anni di piombo, non capita di rado di incontrare negli ambienti della militanza politica – da Destra a Sinistra – chi a quel periodo guarda con fascinazione genuina. Ecco, la domanda di estradizione non riguardava – se mai il terrorismo di quegli anni ha conosciuto figure così – guerriglieri dal fascino mistico che in gioventù furono pronti a votar la vita e costretti dal Sistema, malgrado il cuore puro, a dar la morte nel nome di un’idea; la domanda di estradizione riguardava uomini piccoli e cattivi: quel tipo d’uomo che in una guerra tra gente in divisa attende, imboscato, il momento per uccidere il nemico a tradimento e che, arrogante, non si fa scrupoli a razziare e ammazzare la gente innocente perché la sua causa vale le vite dei “semplici”. Dei 10, 6 membri delle Brigate Rosse: Giovanni Alimonti, condannato a 11 anni per banda armata e associazione terroristica, Roberta Cappelli, condannata all'ergastolo per associazione con finalità di terrorismo, concorso in rapina aggravata, concorso in omicidio aggravato e attentato all'incolumità, Marina Petrella, che deve scontare l'ergastolo per omicidio, Sergio Tornaghi, condannato all'ergastolo per l'omicidio del direttore generale della Ercole Marelli Renato Briano, Maurizio Di Marzio, che deve scontare 5 anni per tentato sequestro dell'ex dirigente della Digos di Roma Nicola Simone e Enzo Calvitti che deve scontare 18 anni di libertà vigilata per i reati di associazione sovversiva, banda armata, associazione con finalità di terrorismo e ricettazione di armi. Giorgio Pietrostefani, tra i fondatori di Lotta Continua - organizzazione della sinistra extraparlamentare a cui sono riconducibili diversi omicidi e che, in data 13/01/23, il 3° canale della televisione di Stato, con l’eccezione unica di Gianpiero Mughini, ha celebrato con il “documentario” Lotta Continua - condannato a 22 anni di carcere come uno dei mandanti dell'omicidio del commissario Luigi Calabresi ucciso vigliaccamente quando non in servizio con colpo alla schiena e alla testa. Il militante di Autonomia Operaia Raffaele Ventura, condannato a 20 anni per concorso morale nell'omicidio a Milano del vicebrigadiere Antonio Custra; il militante dei Proletari armati per il comunismo Luigi Bergamin, che deve scontare una condanna a 25 anni per associazione sovversiva, banda armata e concorso in omicidio e l'ex membro dei Nuclei armati contropotere territoriale, Narciso Manenti, che ha una condanna all'ergastolo per l'omicidio aggravato dell'appuntato dei carabinieri Giuseppe Gurrieri.


Le reazioni:

«Quanto mi fa godere la Cassazione francese... », ha scritto su Facebook il compagno Enrico Galmozzi, fondatore delle Brigate combattenti di Prima Linea a cui, per intenderci, sono ricondotti 36 tentati omicidi, 16 omicidi e 101 azioni armate rivendicate, festeggiando il soccorso dei compagni parigini. Alberto Di Cataldo, figlio del maresciallo Francesco ucciso a Milano dalle Br il 20 aprile 1978, ha commentato così, rassegnato, la sentenza della Cassazione francese: «Ormai sono passati più di 47 anni […] Trovo anche giusto ciò che ha fatto la Cassazione francese. […] la vera partita non è l'estradizione quanto misurare se queste dieci persone daranno un contributo per capire quanto è successo in quegli anni». Lucidissime, invece, le parole del giornalista Mario Calabresi, figlio di commissario Luigi, «c'è un dettaglio fastidioso e ipocrita: la Cassazione scrive che «i rifugiati in Francia si sono costruiti da anni una situazione famigliare stabile […] e quindi l'estradizione avrebbe provocato un danno sproporzionato al loro diritto a una vita privata e famigliare». Ma pensate al danno sproporzionato che loro hanno fatto uccidendo dei mariti e padri di famiglia. E questo è ancora più vero perché da parte di nessuno di loro c'è mai stata una parola di ravvedimento, di solidarietà o di riparazione». «È una vergogna che non ha fondamento giuridico», così inizia l’appello al Ministro della giustizia Carlo Nordio di Roberto Della Rocca, sopravvissuto ad uno degli attentati delle Brigate Rosse, e la risposta del Ministro non si fa attendere anche se è tutto fuorché soddisfacente. Da Carlo Nordio, membro di spicco e stimabile della squadra che finalmente ha dato al paese un Governo di Destra, chiunque, a Destra e non solo, per patrio affetto, pietà di familiari e sopravvissuti, senso di giustizia e tante altre ragioni, si sarebbe aspettato una tuonata decisa e autorevole che, certo, nulla avrebbe cambiato della decisione francese, ma che, forse, avrebbe un po’ di onore alle vittime di quei carnefici che Parigi ha deciso di proteggere. Invece, il Ministro ha scelto la strada della sottomissione, come a tanti è piaciuto fare nella storia dei governi della nostra Nazione, rivendicando sì lo sforzo italiano e la componente ideologica nella scelta francese, ma, al contempo, ribadendo la sovranità, e quindi la legittimità, della scelta francese: «Prendiamo atto della decisione della Corte di Cassazione francese, che in piena autonomia ha deciso di negare l'estradizione in Italia di 10 ex terroristi condannati in via definitiva per gravissimi reati compiuti negli anni di piombo. L'Italia ha fatto tutto quanto in suo potere, perché fosse rimosso l'ostacolo politico che per decenni ha impedito alla magistratura francese di valutare le nostre richieste».


Nordio si è addirittura sbilanciato in favore del suo omologo Dupond-Moretti affermando «Ha compreso il nostro bisogno di verità e giustizia e, dando corso alle nostre domande di estradizione, ha testimoniato la piena fiducia del Governo francese nella nostra magistratura», non sembra di questo avviso la magistratura francese, «che ha giudicato gli imputati degli anni di piombo sempre nel rispetto di tutte le garanzie». Nessuno qui si sognerebbe mai neanche lontanamente di accusare Nordio della connivenza di cui, invece, si accusa senza timore il sistema francese, le parole del ministro sono genuine e esprimono rammarico sincero «Ho vissuto da pubblico ministero in prima persona quegli anni drammatici oggi il mio primo commosso pensiero non può che essere rivolto a tutte le vittime di quella sanguinosa stagione e ai loro familiari, che hanno atteso per anni, insieme all'intero Paese, una risposta dalla giustizia francese. Faccio pertanto mie le parole di Mario Calabresi, figlio del commissario ucciso 51 anni fa, nella speranza che chi allora non esitò ad uccidere ora senta il bisogno di fare i conti con le proprie responsabilità e abbia il coraggio di contribuire alla verità». Quello che amareggia il sottoscritto, oltre la beffa della “giustizia” francese che segue il danno irreparabile degli atti compiuti dai terroristi, sono le scelte e le parole del Ministro, senza dubbio ponderate e inserite in un quadro più grande di collaborazione tra stati, che perdono però ancora una volta la possibilità di marcare la statura morale propria, quando non la rinneghiamo, del nostro Paese e il rifiuto netto, anche e soprattutto contro la sovranità altrui, di ciò che consideriamo male.


È fuor di dubbio che quello che qui si è richiesto al Ministro non avrebbe condotto a nulla di pragmatico, gli assassinati dai terroristi sarebbero rimasti a riposare e la sentenza francese sarebbe rimasta invariata, ma forse, almeno idealmente, l’orgoglio di un paese che non cede, anche solo per voce del Ministro, davanti a una sconfitta drammatica avrebbe potuto lenire il dolore di chi porta ancora le cicatrici del terrore rosso.


Matteo Respinti

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