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Fiumi di sangue, Enoch Powell: un tory contro l’immigrazione selvaggia

Documenti per Il Presente è una collana di pubblicazione, ripubblicazione e traduzione di inediti, di autori poco noti e di testi poco noti di autori noti alla destra italiana, che si propone di ampliare i riferimenti culturali del nostro mondo politico.


Rivers of Blood speech, Discorso dei fiumi di sangue, riarrangiando per fare clamore una citazione all’Eneide di Virgilio in esso contenuta e the Birmingham speech, il Discorso di Birmingham, come lo ha sempre chiamato il suo autore, questi i nomi con qui è passato alla storia il discorso pronunciato da Enoch Powell (1912-1998), il 20 aprile 1968, per il Conservative Political Centre, l’organo di formazione del Partito Conservatore, nella cittadina dell’Inghilterra del Nord.


Il testo nasce nel contesto della discussione del Race Relations Act del ‘68 – promulgato poi con 182 voti favorevoli e 44 contrari – che, succedendo all’omonima legge del ‘65 che aveva vietato le discriminazioni razziali in pubblico e reso crimine la promozione dell’odio raziale, si concentrava sulla discriminazione nella vendita degli alloggi e nell’ambiente lavorativo; e costò a Powell, conservatore, anglicano e monetarista, già nello Stato Maggiore dell’Intelligence durante la Seconda Guerra Mondiale e già Ministro della Difesa dal ‘60 al ’63, la dismissione da supervisore della Difesa per l’opposizione e l’espulsione dal Partito da parte del leader Sir Edward Heath. Nonostante ciò, è accertato che il discorso abbia contribuito sostanzialmente alla crescita dei consensi che avrebbe portato nel, ’70, al Governo Heath.


La figura di Powell, che continuò la sua attività politica con gli Unionisti dell’Ulster e opponendosi all’ingresso nella Comunità Economica Europea, e il contenuto del suo discorso sono stati riabilitati nella storia politica inglese che lo ha succeduto, dalla conservatrice di ferro Margaret Thatcher al capo dell’opposizione laburista Nigel Hastilow fino al coraggioso Nigel Farage, vero conservatore e attivista anti-UE, ma questo poco ci importa.


Non traduciamo e ripubblichiamo il testo del Discorso perché la memoria del suo autore è stata riabilitata, lo facciamo perché, come sappiamo bene, l’immigrazione incontrollata e la non-integrazione sono temi di rilevanza fondamentale per la nostra Nazione; poco ci importa cosa hanno pensato i suoi contemporanei delle parole di Powell e poco ci importa pure che qualche stupido suprematista bianco possa averle manipolate per i propri interessi vili, noi vi vediamo affermazioni coraggiose, patriottiche, rispettose di ogni persona ma non per questo poco risolute – oltre che profetiche, naturalmente – e facciamo nostre le considerazioni politiche e strategiche espresse, dal tema del rimpatrio all’inopportunità di leggi e atteggiamenti che potrebbero istigare comportamenti pericolosi nei cittadini autoctoni, nella speranza di influenzare l’azione politica di chi ci governa e mostrare a chi le leggerà come – alla maniera di questo tory distante dai nostri riferimenti politici – si debba combattere con risolutezza ciò che danneggia il proprio Paese e, insieme, non perdere di vista la dignità della persona.


Introduzione, traduzione e note a cura di Matteo Respinti



Per quanto riguarda la traduzione, si è optato, quando possibile, per un'aderenza letterale alle parole di Powell mantenendo anche le maiuscole secondo il suo stile e aggiungendo ciò che richiede un italiano corretto.


Fiumi di Sangue – Enoch Powell


Il compito supremo dell'arte di governo è lo scongiurare in anticipo i mali prevenibili. Cercando di fare ciò, l’uomo di governo incontra ostacoli radicati profondamente nella natura umana.


Uno di questi è che, per l'ordine stesso delle cose, tali mali non sono dimostrabili fino a quando non si sono verificati: a ogni fase del loro sorgere trova spazio il dubbio sulla possibilità che essi siano reali o immaginari. Allo stesso modo, essi attraggono poca attenzione rispetto alle problematiche dell’attualità, che sono invece indiscutibilmente chiare e pressanti: da qui la costante tentazione di ogni azione politica di occuparsi dell’immediato presente a scapito del futuro.


Soprattutto, le persone sono predisposte al confondere la previsione dei problemi con il volerli causare e persino con il desiderarli: «se solo», amano pensare, «se solo la gente non ne parlasse, probabilmente non accadrebbe».


Forse questa abitudine risale alla credenza primitiva che la parola e la cosa, il nome e l'oggetto, siano identici.


In ogni caso, la discussione dei gravi mali futuri che sarebbero ora, faticosamente, evitabili è il compito più impopolare, e allo stesso tempo più necessario, di un politico. Coloro che consapevolmente lo eludono meritano, e non di rado ricevono, le maledizioni di coloro che verranno dopo.


Una o due settimane fa ho avuto una conversazione con un elettore, un operaio di mezza età, un lavoratore piuttosto ordinario impiegato in una delle industrie nazionalizzate.


Dopo una o due frasi riguardo il tempo, all'improvviso disse: «Se avessi i soldi per andarmene, non resterei in questo paese». Replicai, tentando di biasimarlo, che anche questo Governo non sarebbe durato per sempre; ma lui non ci fece caso e continuò: «Ho tre figli, tutti hanno frequentato il liceo e due di loro ora si sono sposati, hanno una famiglia. Non sarò soddisfatto finché non li avrò visti tutti sistemati all'estero. In questo paese tra 15 o 20 anni l’uomo nero leverà la frusta sull’uomo bianco»


Sento già il coro dell'esecrazione. Come oso dire una cosa così orribile? Come oso causare problemi e infiammare i sentimenti riportando una conversazione simile?


La risposta è che non ho il diritto di non farlo. Ecco, un rispettabile e ordinario sodale inglese che in pieno giorno, nella mia città, dice a me, suo Rappresentante in Parlamento, che per i suoi figli non varrà la pena vivere nel nostro Paese.


Io semplicemente non ho il diritto di fare spallucce e pensare a qualcos'altro. Quello che lui mi disse, migliaia e centinaia di migliaia lo dicono e lo pensano - non in tutta la Gran Bretagna, forse, ma sicuramente nelle aree che stanno già subendo quella trasformazione radicale della quale non c'è parallelo in mille anni di storia Inglese.


Tra 15 o 20 anni, secondo le tendenze attuali, in questo Paese ci saranno tre milioni e mezzo tra immigrati dal Commonwealth e loro discendenti. La cifra non mia, ma è il dato ufficiale fornito al Parlamento dal portavoce dell’Anagrafe Generale.


Non esiste una stima ufficiale per l'anno 2000 ma la cifra dev’essere compresa tra i cinque e i sette milioni, circa un decimo dell'intera popolazione e molto simile a quella attuale della Grande Londra.


Naturalmente, non sarà distribuita uniformemente da Margate ad Aberystwyth e da Penzance ad Aberdeen. Intere aree, città e parti di città in tutta l'Inghilterra saranno occupate da porzioni di popolazione immigrata e di discendenza immigrata.


Con il passare del tempo, su questo totale, la proporzione di discendenti di immigrati nati in Inghilterra, quelli che sono arrivati ​​qui esattamente per la nostra stessa strada, aumenterà rapidamente. Già nel 1985 i discendenti di immigrati nativi del Paese costituiranno la maggioranza della popolazione. Questo è il fatto che motiva l’urgenza estrema di una azione tempestiva, un’azione proprio di quel tipo che è più difficile da intraprendere per i politici, un'azione le cui difficoltà risiedono nel presente e i cui mali da prevenire o ridimensionare si trovano a distanza di diverse legislature.


La prima domanda naturale e razionale che una nazione deve porsi di fronte a tale prospettiva è: «come si possono ridurre le dimensioni di questo fenomeno?» Assodato che non sia più del tutto prevenibile, può essere limitato? Tenendo a mente che i numeri sono essenziali: l’importanza e le conseguenze dell’introduzione di un elemento estraneo in un Paese o in una popolazione variano profondamente a seconda che tale elemento costituisca l'1 o il 10 per cento del totale.


Le risposte alla domanda semplice e razionale sono altrettanto semplici e razionali: fermando o impedendo l'ulteriore afflusso e promuovendo il massimo deflusso. Entrambe le risposte fanno parte della politica ufficiale del Partito Conservatore.


Sembra quasi incredibile che, a oggi, arrivino dall’estero tra i 20 e i 30 bambini alla settimana - e questo significa 15 o 20 famiglie in più tra un decennio o due. Quelli che gli dèi vogliono distruggere, prima li fanno impazzire[1]. Dobbiamo essere pazzi, letteralmente pazzi, come Nazione per consentire l'afflusso annuale di circa 50.000 persone a nostro carico, persone che sono per la maggior parte le fondamenta della crescita futura della popolazione di discendenza immigrata. È come guardare una Nazione intenta ad ammucchiare legna per la propria pira funeraria. Siamo così pazzi che permettiamo a persone non sposate di immigrare proprio allo scopo di fondare una famiglia con coniugi e fidanzati che ancora non hanno mai visto.


Nessuno supponga che il flusso di persone a carico diminuirà automaticamente. Al contrario, anche all'attuale tasso di ammissione per voucher di soli 5.000 immigrati dal Commonwealth all'anno[2], essi sono abbastanza per ulteriori 25.000 discendenti a carico ad annum ad infinitum, senza tener conto dell'enorme riserva di relazioni già in essere in questo paese – e non sto neanche dando peso all’ingresso fraudolento. In queste circostanze, per mitigare il fenomeno, niente sarà efficace se non l’arresto immediato e totale dell'afflusso, fino a numeri trascurabili, di chi intende stabilirsi in Inghilterra e che siano, quindi, adottate senza indugio le misure legislative e amministrative necessarie.


Sottolineo le parole «di chi intende stabilirsi in Inghilterra». Quel che dico, cioè, non ha nulla a che vedere con l’opporsi all'ingresso di cittadini del Commonwealth, o tanto meno degli stranieri, in questo paese per ragioni di studio o per migliorare le proprie qualifiche professionali, come (ad esempio) i medici del Commonwealth che, con beneficio per i propri paesi, hanno permesso di ampliare il nostro servizio ospedaliero più rapidamente di quanto sarebbe stato altrimenti possibile. Loro non sono, e non sono mai stati, immigrati.


Io guardo al rimpatrio. Se tutta l'immigrazione finisse domani, il tasso di crescita della popolazione immigrata e discendente da immigrati sarebbe sostanzialmente ridotto, ma l’entità prevista di questa seconda porzione di popolazione manterrebbe comunque inalterato il suo carattere di pericolo nazionale. Il problema potrà ancora essere affrontato solo fino a quando parte considerevole di questo totale di immigrati comprenderà persone entrate in questo Paese negli ultimi dieci anni circa.


Di qui l'urgenza di attuare ora il secondo punto del programma del Partito Conservatore: l'incoraggiamento al rimpatrio.


Nessuno può fare una stima del numero di coloro che, con un nostro generoso aiuto, sceglierebbero di tornare nei loro paesi di origine o di andare in altri paesi desiderosi di ricevere la manodopera e le competenze che rappresentano.


Nessuno lo sa, perché nessuna politica del genere è ancora stata tentata. Posso solo dire che, anche recentemente, nella mia stessa circoscrizione cittadini immigrati, di tanto in tanto, vengono a chiedermi se posso trovare loro assistenza per tornare a casa. Se questo tipo di politica fosse adottata e perseguita con la determinazione che la pericolosità del non fare nulla giustifica, il deflusso che ne deriverebbe potrebbe alterare sensibilmente le prospettive.


Il terzo punto del programma del Partito Conservatore è che tutti coloro che sono cittadini di questo paese dovrebbero essere uguali davanti alla legge e che non dovrebbero essere fatte differenze da parte dell'autorità pubblica. Come ha affermato il Signor Heath[3], non dobbiamo avere «cittadini di prima classe» e «cittadini di seconda classe». Ciò non significa che l'immigrato e il suo discendente debbano essere elevati a una classe privilegiata o speciale, o che al cittadino debba essere negato il diritto di discriminare, nella gestione dei propri affari, tra un concittadino e l'altro, o che debba essere soggetto a imposizione di qualche tipo rispetto alle ragioni legittime che lo spingono a comportarsi in un modo piuttosto che in un altro.


Non c’è incomprensione della realtà più sbagliata e più grossolana di quella formulata da coloro che chiedono a gran voce una legislazione, così la chiamano, "contro la discriminazione", siano essi editorialisti della stessa risma, e talvolta degli stessi giornali, di quelli che negli anni '30, anno dopo anno, hanno tentato di accecare il Paese rispetto al pericolo crescente[4], o prelati che vivono in palazzi sontuosi e se la passano delicatamente con le coperte fin sopra le teste. Sono diametralmente, al millimetro, distanti dal vero.


La discriminazione e la privazione, il senso di allarme e di risentimento, non si consumano nei confronti della popolazione immigrata ma di coloro tra i quali essi sono venuti e stanno ancora arrivando, i cittadini inglesi.


Questo è il motivo per cui legiferare in questo senso significherebbe gettare un fiammifero sulla polvere da sparo, la cosa più gentile che si può dire su coloro che lo propongono è che non sanno quello che fanno.


Niente è più fuorviante del paragone tra l'immigrato del Commonwealth in Gran Bretagna e il Negro[5] Americano. La Popolazione Negra degli Stati Uniti, che esisteva già prima che gli Stati Uniti diventassero una nazione, fu prima schiava e solo in seguito ottenne il diritto di voto e altri diritti di cittadinanza, al cui esercizio sono giunti solo gradualmente e ancora in modo incompleto. L'immigrato del Commonwealth arrivò in Gran Bretagna come cittadino a pieno titolo, in un paese che non conosceva discriminazioni tra un cittadino e l'altro, ed entrò immediatamente in possesso dei diritti di ogni cittadino, dal voto alle cure gratuite del Servizio Sanitario Nazionale.


Qualunque inconveniente si presentò agli immigrati non sorse dalla legge, dall'ordine pubblico o dall'amministrazione, ma da quelle circostanze e da quegli incidenti personali che rendono, e renderanno sempre le fortune e l'esperienza di un uomo diverse da quelle di un altro.


Ma mentre, per l'immigrato, l'ingresso in questo Paese era l'ammissione a privilegi e opportunità avidamente ricercate, l'impatto sulla popolazione esistente fu molto diverso. Per ragioni che non potevano comprendere, e in virtù di una decisione presa in contumacia, sulla quale questi cittadini non furono mai consultati, si trovarono stranieri nel loro Paese.


Si sono ritrovati le proprie mogli impossibilitate a ottenere letti d'ospedale per il parto, i propri figli impossibilitati a ottenere posti a scuola, le proprie case e quartieri cambiati in modo irriconoscibile, i propri progetti e prospettive per il futuro sconfitti; sul lavoro hanno riscontrato che i datori esitano ad applicare al lavoratore immigrato gli standard di disciplina e competenza richiesti al lavoratore autoctono; essi cominciarono a sentire, col passare del tempo, sempre più voci che dicevano loro che erano indesiderati. Ora apprendono, con l’attività del Parlamento, che deve essere istituito un privilegio a senso unico; una legge, che non può, e non intende, operare per proteggerli o rimediare alle loro lamentele, deve essere emanata per dare allo straniero, al lamentevole e all'agente-provocatore il potere di metterli alla berlina per le loro azioni private.


Nelle centinaia e centinaia di lettere che ho ricevuto l'ultima volta che ho parlato di questo argomento, due o tre mesi fa, c'era una caratteristica, in gran parte nuova, che mi colpì e che trovo inquietante. Tutti i deputati sono abituati al tipico corrispondente anonimo, ma ciò che mi sorprese e allarmò fu l'alta percentuale di persone ordinarie, rispettabili e sensibili, che scrivevano lettere razionali e spesso ben istruite, che credevano di dover omettere il proprio indirizzo perché era pericoloso impegnarsi su carta, concordando con le opinioni da me espresse, con un deputato del Parlamento temendo sanzioni o ritorsioni se si fosse venuto a sapere che lo avevano fatto. La sensazione di essere una minoranza perseguitata che sta crescendo tra la gente comune nelle zone del Paese colpite dall’immigrazione è qualcosa che chi non ha esperienza diretta difficilmente può immaginare.


Lascerò che solo una di quelle centinaia di persone parli per me:


«Otto anni fa, in una rispettabile strada di Wolverhampton, una casa fu venduta a un Negro. Ora, una sola persona bianca vive in quella strada (una donna pensionata). Questa è la sua storia. Ha perso il marito ed entrambi i figli in guerra. Per questo trasformò la sua casa di sette stanze in una pensione, la sua unica fonte di sostentamento. Lavorò sodo e bene, pagò il mutuo e cominciò a mettere da parte qualcosa per la vecchiaia. Poi sono arrivati ​​gli immigrati. Con paura crescente, ha visto occupare una casa dopo l'altra. La strada tranquilla divenne un luogo di rumore e confusione. Purtroppo, i suoi inquilini bianchi se ne andarono tutti.»


Il giorno dopo la partenza dell'ultimo, è stata svegliata alle 7 da due Negri che volevano usare il suo telefono per contattare il loro datore di lavoro. Quando rifiutò, come avrebbe rifiutato qualsiasi estraneo a quell'ora, fu molestata verbalmente e temette che sarebbe stata aggredita se non fosse stato per la catena alla sua porta. Le famiglie immigrate hanno provato ad affittare stanze nella sua casa, ma lei ha sempre rifiutato. La sua piccola riserva di denaro è andata e, dopo aver pagato le tasse, ha meno di 2 sterline a settimana. Andò a chiedere una riduzione della tariffa e fu vista da una giovane, la quale, saputo che aveva una casa di sette stanze, le propose di affittarne una parte. Quando disse che le uniche persone che poteva incontrare erano Negri, la ragazza disse: «I pregiudizi razziali non ti porteranno da nessuna parte in questo paese». Quindi se ne andò a casa.


«Il telefono è la sua ancora di salvezza. La sua famiglia paga il conto e la aiuta come meglio può. Gli immigrati si sono offerti di acquistare la sua casa, a un prezzo che l’eventuale proprietario sarebbe in grado di recuperare dagli inquilini in poche settimane o al massimo in pochi mesi. Sta iniziando ad avere paura di uscire. Le finestre sono rotte. Trova degli escrementi imbucati nella cassetta delle lettere. Quando va a fare la spesa è seguita dai bambini, graziosi negretti[6] con ampi sorrisi. Non parlano inglese, ma conoscono una parola. «Racialist», cantano. Questa donna è convinta che andrà in prigione quando verrà approvata la nuova Legge sulle Relazioni Razziali. E ha così torto? Comincio a chiedermelo.»


L'altra illusione pericolosa di cui soffrono coloro che, volontariamente o meno, sono ciechi difronte alla realtà, è riassunta nella parola «integrazione». Integrarsi in una popolazione significa diventare a tutti gli effetti indistinguibili dagli altri membri.


Ora, in ogni momento, dove ci sono differenze fisiche marcate, soprattutto di colore, l'integrazione è difficile anche se, lungo un certo periodo, non impossibile. Ci sono, tra gli immigrati del Commonwealth che sono venuti a vivere qui negli ultimi quindici anni, molte migliaia il cui desiderio e proposito è quello di essere integrati e il cui ogni pensiero e sforzo è rivolto in quella direzione.


Ma immaginare che una cosa del genere entri nella testa di una grande e crescente maggioranza di immigrati e dei loro discendenti è un malinteso ridicolo e pericoloso.


Siamo sull’orlo di un cambiamento. Finora sono state la forza delle circostanze e del contesto a rendere l’idea stessa di integrazione inaccessibile alla maggior parte della popolazione immigrata – perché essi non hanno mai né concepito né voluto una cosa del genere, e perché il loro numero e la loro concentrazione spaziale hanno comportato il non funzionamento delle pressioni verso l’integrazione che normalmente muovono una piccola minoranza.


Ora assistiamo alla crescita di forze che agiscono contro l’integrazione, sorte nel quadro della preservazione e dell’acuirsi differenze razziali e religiose, che guardano all’esercizio di un vero e proprio dominio, prima sui compagni immigrati e poi sul resto della popolazione. La nuvola, non più grande della mano di un uomo, che può coprire il cielo così rapidamente, è stata visibile recentemente a Wolverhampton e ha mostrato segni di diffusione rapida. Le parole che sto per usare, così come sono apparse sulla stampa locale il 17 febbraio, non sono mie, ma di un deputato laburista, Ministro dell'attuale governo:


«La campagna delle comunità sikh per mantenere le proprie usanze inappropriate in Gran Bretagna è molto deplorevole.[7] Lavorando in Gran Bretagna, in particolare nei servizi pubblici, dovrebbero essere pronti ad accettare i termini e le condizioni del loro impiego. Rivendicare diritti comunitari speciali (o dovremmo dire riti?) porta a una pericolosa frammentazione all'interno della società. Questo comunitarismo è un cancro, che sia praticato da un colore o da un altro è da condannare fermamente».


Tutto il merito va a John Stonehouse[8] per aver avuto l'intuizione e il coraggio di dirlo.


Per questi elementi pericolosi e divisivi, la legislazione proposta nel Disegno di legge sulle Relazioni Razziali è proprio il pabulum di cui hanno bisogno per prosperare. Ecco il mezzo per dimostrare che le comunità di immigrati possono organizzarsi per consolidare i propri membri, per agitare e fare campagna contro i loro concittadini e per intimorire e dominare il resto della cittadinanza con le armi legali fornite dagli ignoranti e dai malinformati. Mentre guardo avanti, sono pieno di presentimenti; come i romani, mi sembra di vedere «il fiume Tevere spumeggiante di molto sangue»[9].


Quel fenomeno tragico e difficile da risolvere, che guardiamo con orrore dall'altra parte dell'Atlantico, ma che lì è intrecciato con la storia e l'esistenza stessa degli Stati, si sta verificando qui per nostra stessa volontà e per nostra negligenza. In effetti, è quasi arrivato. In termini numerici, raggiungerà le proporzioni americane molto prima della fine del secolo.


Solo un’azione risoluta e urgente potrà evitarlo, anche se praticata adesso. Se ci sarà la volontà pubblica di pretendere e ottenere tale intervento, non lo so. So solo che vedere e non parlare sarebbe un grande tradimento.

[1] Parafrasi del detto in latino «Quos vult Iupiter perdere, dementat prius», anche cristianizzato come «Quos Deus vult perdere, prius dementat». Una elaborazione moderna, si parla del 17° secolo, diffusa negli scritti politici e polemici inglesi e, più recentemente, nella grande letteratura. Erroneamente attribuita a Sofocle e Platone.

[2] Nel 1962 il Governo britannico varò il primo Commonwealth Immigrants Act, con l’obbiettivo di regolamentare e limitare il numero dei migranti provenienti dai paesi del Commonwealth. La legge restrinse a tre le ragioni e le modalità di immigrazione: come Powell sostiene nel paragrafo successivo, libero accesso per coloro che dovevano svolgere un lavoro specifico nel territorio nazionale e a chi era qualificato per svolgere mansioni di cui l’Inghilterra necessitava, mentre nullaosta, voucher appunto, contingentati, ogni anno il numero diminuiva, per i lavoratori non specializzati, con priorità per chi aveva servito durante la Seconda Guerra Mondiale.

[3] Sir Edward Richard George Heath (1916-2005), anglicano, tenete colonnello durante la Seconda Guerra Mondiale, Capo del Partito Conservatore dal 1965 al 1975, quando sarà succeduto da Margaret Tatcher, e Primo Ministro del Regno Unito dal 1970 al 1974. Monetarista, non fu in grado di riformare il paese secondo un modello economico liberista, durante il suo governo il paese entrò nella Comunità Economica Europea e si compirono i fatti del Bloody Sunday. Heath non intrattenne mai buoni rapporti né con i patrioti irlandesi né con gli unionisti, questi ultimi furono la causa della caduta del suo governo.

[4] Verosimilmente qui Powell fa riferimento al fatto che fino al ’38 la stampa inglese fu quantomeno affascinata dal progetto politico del Führer tedesco, un esempio in particolare può essere il The Daily Mail di Harold Harmsworth.

[5] Come segnalato nella nota iniziale si è scelto di tradurre il discorso nella maniera più letterale e veritiera possibile, per tanto sottolineiamo l’utilizzo da parte di Powell del vocabolo «negro» che, esattamente come in italiano, fu termine di utilizzo comune e solo oggi, in quanto desueto, se adoperato in un contesto pubblico, ha chiari fini denigratori. Per fugare ogni sospetto di razzismo, evidenziamo che Powell avrebbe avuto a disposizione una vasta gamma di vocaboli denigratori, slur in inglese, anche per quell’epoca e che altri suoi contemporanei non esitavano ad utilizzare.

[6] Il termine «negretti» traduce qui l’inglese «piccaninnies», ancora una volta un termine desueto che assume oggi un significato denigratorio e piuttosto disgustoso. La traduzione scelta si avvicina sicuramente al significato con cui il vocabolo è impiegato da Powell, ma non traduce neanche lontanamente, per la forza dell’espressione, l’utilizzo contemporaneo denigratorio.


[9] Probabilmente, qui si fa riferimento al Kirpan, il pugnale rituale tradizionale che i sikh adulti debbono sempre recare con se. Considerando il contesto storico, si può comprendere l'esasperazione sociale che muove questa critica, che pur rimane spropositatamente violenta per la natura della tradizione. In un paese in cui l'identità nazionale non è minacciata, la presenza di comunità ordinate e rispettose come quelle sikh non può in alcun modo costituire un problema sociale e civile.

[8] John Thomson Stonehouse (1925-1988), parlamentare congiunto del Partito Laburista e del Partito Co-Operativo, Direttore delle Poste Generali (Ministro) dal 68 al 70, sotto il Governo labourista Wilson, sospettato di essere una spia per conto della Repubblica Socialista Cecoslovacca, nel ’74 tentò di fingere la propria morte.

[9] Virgilio, Eneide, VI, v.87: «[bella, horrida bella et] Thybrim multo spumantem sanguine cerno», «[Guerre, terribili guerre e] il fiume Tevere spumeggiante di molto sangue. Un presagio di sventura, nel caso in cui l’uomo di Stato scelga di ignorare il problema, non un auspicio della guerra tra etnie come progressisti, editori affamati e stupidi suprematisti hanno tentato di affermare.

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