Anche questa volta L'ANPI, che, di fatto, dovrebbe essere poco più che un'associazione reducistica, non ha perso l'occasione per mostrare alla nazione il proprio vero volto, quello di associazione spiccatamente anti-italiana.

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Se la sofferenza del popolo palestinese merita tanta attenzione da parte dall'Associazione Nazionale Partigiani Italiani da giustificare le ostilità con la Brigata (partigiana) Ebraica, e nel merito della questione potremmo anche essere d'accordo; per l'Associazione, che si propone di raccogliere l'eredità dei partigiani italiani, la sofferenza del popolo italiano, partigiani compresi, della Venezia Giulia è cosa da dimenticare.
Anzi, si potrebbe quasi dire, senza timore di smentita, che la sofferenza del popolo italiano, partigiani compresi, della Venezia Giulia fu fatto giusto e giustificato.
Una mostra per “superare odi e rancori” o un’operazione di revisionismo?
A San Giustino (Umbria, Perugia), i nostri eroi anti-italiani, nella persona del professore Mauro Remondini, hanno organizzato, con il patrocinio del Comune, una mostra finalizzata a «superare odi e rancori». L'iniziativa, visitabile fino al 14 febbraio, era stata presentata come un'occasione di riflessione storica, ma, neanche a dirlo, si è rivelata la solita operazione di revisionismo.
La segnalazione del consigliere comunale Luciana Veschi (FdI) e la denuncia di Gioventù Nazionale, ha portato alla luce i contenuti di questa esposizione, che riprende il vergognoso libretto Le Foibe e l'esodo giuliano-dalmata, realizzato dall'ANPI di Massa Lombarda.
Matteo Respinti
Riportiamo di seguito il racconto di Francesco Rignanese, militante di Gioventù Nazionale Umbria, che ha visitato la mostra.

Le tesi della mostra: una “contestualizzazione” che ignora le vittime italiane
Dopo la segnalazione a mezzo stampa della consigliera comunale Luciana Veschi, ieri (12 /02) ho visitato la mostra organizzata dall'ANPI, con il patrocinio del Comune di San Giustino. Al di là della cordiale discussione con il responsabile dell’accesso e dell’illustrazione della mostra, non posso che esprimere sconcerto per il taglio e le tesi proposte da questa iniziativa.
L’esposizione si basa sui contenuti di un libretto realizzato dall'ANPI di Massa Lombarda, riproposto a San Giustino con il titolo Le Foibe e l’esodo giuliano-dalmata. Secondo gli autori, l’intento è quello di «superare gli odi e i rancori consumati lungo il confine oggi italo-sloveno, per costruire uno spazio europeo libero da guerre fratricide», abbandonando un «punto di vista asfitticamente nazionale e di parte».
Ci tengono poi a specificare che la mostra «non nega le tremende vicende delle foibe, ma le vuole collocare nella loro corretta dimensione storica, che inizia molto prima del settembre '43».
Fin qui, dichiarazioni apparentemente innocue, se non fosse per l’evidente excusatio non petita, che solleva più di un sospetto. Ed è qui che l’operazione rivela il suo vero volto: dietro il linguaggio pacificatore si nascondono i soliti cliché giustificazionisti e negazionisti.
La giustificazione delle violenze titine e l’attacco al “mito del bravo italiano”
La “contestualizzazione storica” si traduce in 18 pagine su 30 dedicate esclusivamente alla gestione fascista del confine orientale dal 1919 al 1943, ignorando volutamente il XIX secolo e gli eventi antecedenti la Prima guerra mondiale. Ancora più grave, non si fa alcun riferimento alle azioni dei comunisti jugoslavi e italiani in quegli anni, né ai loro legami con i movimenti nazionalisti locali.
Le pagine dedicate alle foibe e all’esodo iniziano con un elogio alla resistenza jugoslava, descritta come «l’unico movimento partigiano in Europa capace di liberarsi con le sue sole forze, anche a costo di una guerra civile contro i collaborazionisti». Un merito che, nella narrazione proposta, sembra giustificare le atrocità commesse. Come se l’accusa di collaborazionismo non fosse stata la scusa con cui i comunisti titini – con il placet e, talvolta, la complicità di quelli italiani – perseguitarono un’intera popolazione e tutti i potenziali oppositori.
Non manca il solito attacco al cosiddetto «mito del bravo italiano», come se la commemorazione delle vittime delle foibe fosse solo un’operazione retorica priva di fondamento storico. Peggio ancora, si ripropone la menzogna secondo cui le violenze del '43 e degli anni successivi sarebbero state atti «antifascisti e non antiitaliani», ignorando che furono eliminati anche civili privi di qualsiasi legame col fascismo, solo perché italiani.
La Brigata Osoppo e il negazionismo sulle epurazioni
Il tentativo di ridurre le epurazioni del dopoguerra a semplici azioni contro collaborazionisti è altrettanto vergognoso. Secondo il libretto, i pochi perseguitati che non rientravano in questa categoria «avevano combattuto clandestinamente contro l’amministrazione jugoslava riconosciuta dagli Alleati», lasciando intendere che, in fondo, se la siano meritata.
Ma il punto più infame è la descrizione della Brigata Osoppo, ribattezzata nel testo banda Osoppo – con una terminologia che richiama la criminalità comune – e dipinta come una forza ostile alla Resistenza. Si afferma falsamente che l’ordine di porsi sotto il comando del IX Korpus sloveno venne dal CLNAI, quando invece fu Togliatti a imporlo ai comunisti.
Si omette il fatto che la Osoppo fosse composta da laici, cattolici e socialisti che si rifiutavano di sottostare agli ordini jugoslavi. Si minimizza la strage di Porzûs e si ignora completamente la lunga scia di esecuzioni sommarie di partigiani non allineati al comunismo titino.
L’esodo giuliano-dalmata ridotto a una scelta volontaria
Infine, si arriva all’esodo. Con una contorsione degna di nota, gli autori sostengono che non ci fu nessuna espulsione forzata e che le partenze non furono causate dalle violenze di fine guerra. Peccato che le armi siano state usate eccome, come dimostra la strage di Vergarolla, deliberatamente omessa dall’esposizione, in cui morirono oltre 100 persone, tra cui molti bambini.
La mostra si chiude con un paragone volutamente strumentale tra un articolo del Corriere della Sera del 1944, in cui si cita Mussolini che parla dei caduti nelle foibe, e la legge del 2004 che ha istituito il Giorno del Ricordo, quasi a suggerire una continuità tra regime commemorazione.

Un’operazione del genere, per di più con il patrocinio di un ente pubblico, non può passare sotto silenzio. Ringrazio ancora la consigliera Luciana Veschi per aver sollevato la questione: è necessario che venga affrontata nelle sedi opportune.
Francesco Rignanese