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Fornero: passato e futuro di una riforma storica

Dicembre 2011, Roma, il Governo Monti ancora neonato e incaricato di far fronte alla crisi dei debiti sovrani presenta una riforma radicale del sistema pensionistico italiano, volta a riconquistare la fiducia dei mercati e destinata a rivoluzionare la dialettica politica degli anni successivi. Il decreto-legge riportava in fondo la firma di un ministro allora ancora poco conosciuto: Elsa Fornero.

In questo articolo ripercorreremo le misure approvate e cercheremo di capire quali prospettive ci sono per il futuro sul fronte pensioni.


Cosa prevedeva la riforma


La riforma stravolse il sistema pensionistico italiano, essa, in primis, prevedeva l’allargamento del metodo di calcolo contributivo per la pensione a tutti i lavoratori, anche quelli lasciati esclusi dalla riforma Dini del 1995. Senza entrare nel merito della determinazione della pensione con calcolo contributivo, invece che con il retributivo, metodo usato in Italia fino al 1995, basti sapere che quest’ultimo garantiva in genere assegni pensionistici più alti, anche però a rischio di gravare troppo sui conti pubblici.


Il cuore della riforma era però l’innalzamento dell’età anagrafica per accedere alla pensione, in particolare dal 2011 era possibile andare in pensione con pensione di vecchiaia a 67 anni e 20 anni di contribuzione se la pensione è almeno pari a 1,5 volte l’importo dell’assegno sociale (pari a 503,27 euro nel 2023). In caso contrario, scattava la pensione di vecchiaia a 71 anni con almeno 5 anni di contribuzione effettiva.


Per quanto riguarda la possibilità delle pensioni anticipate, esse prescindevano dall’età anagrafica, ma avevano requisiti contributivi stringenti (42 anni e 10 mesi per gli uomini e 41 e 10 mesi per le donne); in alternativa si andava in pensione anticipata anche a 64 anni, con 20 anni di contribuzione effettiva, se la pensione mensile era superiore a 2,8 volte l’assegno sociale.

I requisiti, infine, avrebbero dovuto essere aggiornati ogni due anni, dal 2019 in poi, con un idea di aumentarli progressivamente vista la continua crescita dell’aspettativa di vita in Italia, cosa che in realtà non fu mai fatta.


I primi effetti: povertà ed esodati


Che la riforma fosse durissima per la gente lo si capì subito, da quando durante il discorso di presentazione del decreto Elsa Fornero iniziò a singhiozzare comprendendo quanto grande fosse il sacrificio che illegittimamente un governo mai eletto chiedeva al popolo italiano.

Il primo risultato fu per i nuovi pensionati una riduzione sempre maggiore degli assegni pensionistici, questo, però, non si tradusse nei dati in un aumento significativo della povertà relativa ed assoluta tra gli anziani (si parla di un aumento di circa l’1% tra il 2011 e il 2013), principalmente grazie all’aumento degli aiuti economici che i figli lavoratori davano ai genitori. Non a caso divenne sempre più pressante, e lo è tutt’oggi, il problema degli anziani soli che, senza una famiglia a sostenerli, vivevano in condizioni di sempre maggiore povertà.


Un altro motivo per cui la povertà non aumentò immediatamente è che, spostando in avanti il momento della pensione, si ritardava l’uscita degli anziani dal mercato del lavoro, ritardando la visibilità degli effetti della riforma sugli importi pensionistici. Un secondo problema fu quello degli esodati, spesso nominati dai telegiornali ma sconosciuti ai più della popolazione. Gli esodati erano lavoratori che, sotto il governo Berlusconi, su incentivo delle aziende per cui lavoravano, si sono licenziati volontariamente e sono stati messi in una sorta di aspettativa-ponte verso la pensione. In pratica questi lavoratori, visto che molte imprese avrebbero dovuto tagliare il personale per far fronte alla crisi, sono stati accompagnati verso la pensione con un’indennità temporanea così da stimolare l’assunzione di nuovi giovani ed un ricambio generazionale della manodopera. Appare ora chiaro che nel momento in cui questi signori hanno ascoltato dal loro televisore il discorso della Fornero che annunciava loro che non sarebbero più andati in pensione nel giro di un anno, ma di cinque, sei o magari sette, abbiano sentito il sangue gelare nelle vene. Gli esodati sono il simbolo della gente abbandonata dallo Stato. Ormai avanti con l’età, con difficoltà a reinserirsi in un mercato del lavoro da cui erano appena usciti e con sempre meno fiducia nella politica.

Nel 2011 il governo Monti stimò che essi sarebbero stati 65.000. I numeri oggi parlano di 350.000 esodati. Se si vuole trovare un motivo per cui la riforma Fornero è stata disastrosa basta chiedere ad uno di quei 350.000 italiani abbandonati da un governo incapace anche, a quanto pare, di fare delle stime.


Cosa sta venendo fatto?


Negli ultimi anni tutti i partiti, anche quelli che sostennero il governo Monti, hanno proposto e approvato riforme e correzioni alla Fornero, tuttavia esse furono poco incisive. Il 1° gennaio 2023 l’attuale governo ha introdotto quota 103, che consente l’accesso alla pensione a chi compie 62 anni di età e raggiunge 41 anni di contributi entro il 31 dicembre 2023. La misura è tuttavia temporanea, in attesa che la stabilizzazione delle condizioni economiche permettano nuovi aggiustamenti.

Nel maggio 2023 è stata introdotta anche l’APE sociale, un aiuto economico pari alla pensione certificata (se questa è minore di 1500 euro lordi) o 1500 euro (se maggiore) non compatibile con redditi da lavoro dipendente o assimilato che eccedono certi limiti. È rivolta a lavoratori di 63 anni, con 30 anni di contributi che siano disoccupati che hanno esaurito gli ammortizzatori sociali, soggetti che assistono parenti di primo grado portatori di handicap, invalidi civili, o lavoratori con 36 anni di contributi che hanno svolto lavori gravosi per almeno 6 anni negli ultimi 7, o 7 anni nell’ultimo decennio. Le misure vanno nella direzione di un approccio agli assegni pensionistici più morbido e vicino alle persone, tuttavia la strada da fare resta lunga.


Quali prospettive per il futuro?


Triste da dire, ma le prospettive per il futuro sono tutt’altro che rosee: il continuo aumento dell’aspettativa di vita in Italia (se escludiamo il biennio 20-21 falcidiato dal Covid-19) farà sì che la spesa in prestazioni sociali continui ad aumentare, fino a divenire insostenibile per le finanze pubbliche.

Al momento le pensioni sono il primo capitolo di spesa dello Stato italiano: in media spendiamo in pensioni due volte e mezzo quello che spendiamo in sanità, sei volte quello che spendiamo in istruzione e ricerca.

Allo stesso tempo due elementi frenano l’aumento delle pensioni: l’assenza di crescita dei salari e la scarsa natalità. Se i salari non crescono (e negli ultimi trent’anni sono addirittura calati del 2,9%), meno contributi vengono versati, questo si traduce in meno risorse per pagare le pensioni. Se la popolazione non cresce la popolazione ha sempre meno lavoratori che pagano i contributi e l’Italia resta un Paese anziano e debole. Ciò ci porta ad evidenziare quello che è il primo problema dell’Italia e dell’intero Occidente: la scarsa natalità. In Italia abbiamo la natalità tra le più basse in Europa (circa 1,24 figli per donna) e se non verranno prese misure efficaci in questo senso siamo destinati ad un fato inglorioso. Promozione della stabilità delle famiglie, aiuti alle coppie che si sposano, detrazioni maggiori per chi decide di avere figli e più figli si fanno più le detrazioni devono crescere, queste sono solo alcune delle misure che devono essere introdotte il prima possibile. Ora o mai più, questo è il monito che i numeri della spesa pubblica in pensioni ci stanno suggerendo, così da non vivere mai in un Italia in cui, parlando della riforma Fornero, si dica: “è stato solo l’inizio”.


Matteo De Guidi

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