Il 17 agosto di 14 anni fa venne a mancare Francesco Cossiga, ottavo Presidente della Repubblica. Fra tutti e dodici i Presidenti, Cossiga è stato sicuramente uno dei più energici, attivi e interventisti, tanto che i suoi vivaci discorsi rivolti al mondo politico vennero definiti “picconate”, ed è proprio alla memoria del Picconatore che questo articolo è dedicato.
Gli inizi e il cursus honorum:
Cossiga nacque a Sassari nel 1928 da una famiglia della buona borghesia, ed era imparentato con Enrico Berlinguer, dato che le madri erano cugine di primo grado. Si diplomò al liceo classico Azuni di Sassari a 16 anni, e sempre a Sassari conseguì la laurea in giurisprudenza, a 19 anni e mezzo. A 22 anni cominciò a fare l’assistente e poco tempo dopo ottenne la cattedra di diritto costituzionale. Nel 1945 si iscrisse alla Democrazia Cristiana, e nel ’48, insieme ad altri democristiani – come raccontò in seguito lui stesso – venne armato da Antonio Segni con fucili e bombe a mano consegnate dai carabinieri, per timore di un “golpe rosso”.
Deputato per la prima volta nel 1958, nel 1966 venne nominato sottosegretario alla Difesa nel terzo Governo Moro e svolse funzioni amministrative all’interno della struttura segreta Gladio, che gli avrebbe procurato tanti guai anni dopo al Quirinale.
Gladio era stata attivata nell’immediato dopoguerra in tutti i Paesi occidentali dalla CIA e dal Secret Service britannico in funzione anticomunista, e Cossiga aveva imparato a usare le armi da giovanissimo, in una base segreta in Sardegna. Nel quarto Governo Moro ottenne l’incarico di Ministro per l’organizzazione della pubblica amministrazione, che ricopre dal novembre 1974 al febbraio 1976.
Il Viminale e il rapimento Moro:
Il 12 febbraio 1976 giura il quinto Governo presieduto da Aldo Moro e Francesco Cossiga è nominato Ministro dell’Interno. Ricoprirà quest’incarico anche nel terzo e quarto Governo Andreotti, fino al 1978.
Fu un biennio orribile, tanto per il nostro Paese, quanto per Cossiga stesso, prima alle prese con le violente proteste studentesche, e dopo con il sequestro di Aldo Moro. Come ammise lui stesso, forse ebbe la mano pesante con i contestatori, ma i movimenti del ’68 (che in Italia duravano ormai da quasi un decennio) stavano andando fuori controllo: «non posso consentire che i figli della borghesia romana uccidano i poliziotti figli dei contadini del Sud».
Non erano nemmeno passati tre giorni dal giuramento del quarto Governo Andreotti (nato a seguito di lunghe trattative dei partiti), che il 16 marzo, giorno in cui il governo si presentava alla Camera per ottenerne la fiducia, giunge la notizia del rapimento di Aldo Moro: dopo aver ucciso i cinque uomini della sua scorta, le Brigate Rosse sequestrarono il presidente della DC in via Mario Fani.
Da un’intervista di Bruno Vespa a Cossiga, risalente all’estate 1993:
«Lei mi chiede se Moro poteva essere salvato. No, non credo. A meno che coloro che lo detenevano non avessero capito due cose, che non hanno capito. Innanzitutto non hanno capito che erano a un palmo dalla vittoria […]. Il 9 maggio del ’78, quando è stato trovato il corpo di Moro in via Caetani, era riunita la direzione democristiana. Se non l’avessi interrotta io dicendo che Moro era stato ucciso, certamente la direzione avrebbe deciso la convocazione del Consiglio nazionale. E il Consiglio nazionale certamente avrebbe modificato la linea seguita fino a quel momento e avrebbe chiesto una sua autonomia rispetto al governo.
Io immaginavo una cosa del genere, tanto è vero che al mattino andai in piazza del Gesù senza sapere se fossi rimasto in carica. Ero democristiano e se la DC avesse deciso di cambiare linea, si sarebbe dovuto cambiare il ministro dell’Interno. […]
La seconda cosa che le Brigate Rosse non hanno capito è come si sarebbe destabilizzato il rapporto tra DC e PCI. Non dimentichiamoci che le ultime lettere di Moro sono una violenta accusa al Partito Comunista e alla Democrazia Cristiana. Moro rimproverava alla DC di aver scambiato l’accordo politico con il PCI per una consonanza ideologica e di aver rinunciato al suo patrimonio umanista e cristiano per far forte l’intransigenza dogmatica e leninista del Partito Comunista. […]
Occorre una lettura attenta delle lettere di Moro per capire tutto questo. Può darsi che un giorno, se avrò il coraggio… A me parlare di queste cose costa una grandissima fatica… Guardi queste macchie sulla pelle, guardi i miei capelli bianchi. Tutto questo non mi è venuto per un motivo futile, è frutto di uno stress… Ringrazio Dio di avermi fatto uscire da questa storia con la testa abbastanza equilibrata. Sa, i miei amici di partito tenevano la linea di fermezza. Io li guardavo e pensavo: per voi è facile. Ma io faccio il ministro dell’Interno, se Moro muore, è colpa mia…».
Dopo il ritrovamento del cadavere di Moro in una Renault 4 rossa in via Caetani, Cossiga si dimise immediatamente, e per un anno smise di far politica, ritirandosi nella sua Sardegna.
I governi Cossiga:
A seguito delle elezioni politiche del 1979, che videro l’affermarsi del centro e l’arretramento del PCI, il Presidente della Repubblica Sandro Pertini diede l’incarico di formare il governo prima a Giulio Andreotti, poi a Bettino Craxi e infine a Filippo Maria Pandolfi, ma tutti e tre non riuscirono nell’impresa. Pertini allora incaricò Cossiga, che nell’ottava legislatura presiedette due governi: il primo, in carica dall’agosto dello stesso anno sino a marzo 1980, e il secondo consecutivo, dall’aprile 1980 al settembre dello stesso anno.
Da Presidente del Consiglio Cossiga dovette affrontare altri momenti difficili, che riguardavano sempre l’ordine pubblico: basti pensare agli altri crimini delle Brigate Rosse, che in quegli anni eliminarono spietatamente sempre più forze dell’ordine e personalità dello Stato, alla strage di Ustica o a quella della stazione di Bologna, o alla mafia, che il 6 gennaio 1980 uccise il Presidente della Regione Sicilia, Piersanti Mattarella.
Il secondo governo Cossiga cadde per una mancata fiducia a una legge di natura economica: su un voto di fiducia a scrutinio segreto, il governo andò sotto per un solo voto, 297 voti a favore e 298 voti contrari, con una trentina di franchi tiratori.
La vera svolta nella vita di Cossiga avvenne però con la legislatura successiva: a seguito delle elezioni politiche del 1983, alla prima seduta del 12 luglio venne eletto Presidente del Senato, e due anni dopo…
L’ascesa al colle: tra Csm e Gladio:
Il 24 giugno 1985 Francesco Cossiga veniva eletto Presidente della Repubblica, con 752 voti, stabilendo due record: la prima elezione di un Presidente della Repubblica al primo scrutinio e, al tempo stesso, il più giovane Capo dello Stato al momento dell’elezione, dato che all’epoca non aveva neanche 57 anni.
I tentativi di Pertini di ottenere una conferma caddero di fronte al veto di Craxi e alla freddezza dei democristiani, che volevano il ritorno di uno dei loro al Quirinale, dato che a Palazzo Chigi lo stesso Craxi sarebbe stato il capo di governo più longevo della Repubblica (almeno fino all’arrivo, dieci anni più tardi, di Silvio Berlusconi).
Quando si riunirono i parlamentari della DC per proporre la candidatura ufficiale del partito, De Mita disse che Cossiga avrebbe potuto farcela sin da subito. Racconta Andreotti:
«Forlani mosse un’obiezione di metodo: riflettiamo, la tradizione non è di votare il Presidente al primo turno. Allora intervenni: se per la prima volta ci troviamo nella condizione di poter eleggere un democristiano al primo turno, un rifiuto sarebbe un peccato contro lo Spirito Santo. Il PCI diede il suo consenso, anche se non tutto il partito era d’accordo con la proposta».
Nei primi cinque anni di mandato il Presidente mantenne un ottimo rapporto con i comunisti, pur quando era contro il CSM. Cossiga raccontò che la prima volta che ebbe uno scontro con il CSM fu nel 1985: il più alto organo della magistratura voleva approvare una mozione di censura nei confronti dell’allora Presidente del Coniglio Bettino Craxi. Cossiga, da presidente dell’organo stesso, lo impedì, e la direzione del PCI si schierò con lui.
Ma tutto cambiò 5 anni più tardi: nel giugno 1990 Cossiga attaccò il CSM, che con una lettera lo accusava di aver assunto un carattere politico. Nell’autunno dello stesso anno i comunisti fecero richiesta per rinviare il Presidente della Repubblica all’Alta Corte per attentato alla Costituzione, ma questa fu respinta dal Parlamento.
Cossiga non ebbe un attimo di pausa: l’anno successivo finì di nuovo nel vortice delle accuse, questa volta per il suo ruolo nell’organizzazione Gladio. Cossiga si dimise due mesi prima della scadenza naturale del suo settennato e il voto per messa in stato d’accusa non si tenne.
Quando Andreotti informò il Parlamento dell’esistenza di Gladio, e qualche tempo dopo procedette ad inviare alla commissione stragi delle Camere l’elenco dei 622 gladiatori, Cossiga si trovava all’estero. Quando questa lista fu data in mano ai giornali, la sinistra esultò dicendo che finalmente si era scoperto chi stava realmente dietro la “strategia della tensione” e le “stragi di Stato”, attaccando anche il Capo dello Stato, che in quella faccenda era coinvolto già da giovanissimo.
«La mia prima preoccupazione fu di rassicurare i comunisti. Chiamai Occhetto e lo pregai di aspettare il mio ritorno e gli elementi di giudizio che avrei potuto fornirgli per dimostrare che si trattava di una faccenda che aveva radici antiche ed era del tutto legittima… Non ci fu niente da fare.» […] «In realtà il PCI fu colpito dal fatto di non aver mai saputo niente di Gladio. In effetti, aver mantenuto per decenni in Italia un segreto del genere era un miracolo…».
Andreotti aveva scoperchiato il vaso di Pandora di Gladio, a suo dire perché «una volta venuto fuori il problema, era doveroso e utile fornire tutti gli elementi al Parlamento e all’opinione pubblica». D’altro canto, Cossiga disse che Andreotti era scettico su qualunque cosa riguardasse i servizi segreti e questo tipo di strutture, che considerava finita la Guerra Fredda e che voleva evitare che qualcuno gli gettasse questa cosa tra i piedi all’improvviso.
Indro Montanelli, commentando la vicenda - forse con un po’ di malizia – disse che Andreotti sapeva benissimo quello che faceva, e che lo ha fatto per togliere di mezzo Cossiga e garantirsi la successione al Quirinale anche con i voti del PCI, che di questa faccenda erano gli unici beneficiari.
Le picconate e le dimissioni anticipate:
Negli ultimi anni da Presidente della Repubblica, Cossiga si lasciò andare a una serie di esternazioni provocatorie, spesso caustiche, che in un primo momento lasciarono sbigottita l’intera opinione pubblica: alcuni pensavano che il Presidente non prendesse le medicine o le prendesse male, altri pensavano che fosse impazzito del tutto, ma nulla di tutto ciò era vero.
Era lucidissimo, semplicemente scelse di fare una cosa che mai i suoi predecessori o successori avrebbero fatto: dire le cose che pensava così come stavano. E allora definisce «analfabeta» Paolo Cirino Pomicino, poiché da medico venne nominato Ministro del Bilancio, Ciriaco De Mita un «bugiardo e gradasso», il sindaco di Bari, Dalfino, «un irresponsabile e un cretino». Indimenticabile, e rispolverata qualche anno fa, nel 2021, fu la picconata a Mario Draghi: «un vile affarista».
Cossiga inoltre fu un sostenitore dell’elezione diretta del capo dello Stato, del sistema maggioritario e dell’istituzione di referendum propositivi (e non soltanto abrogativi, come previsto dalla carta costituzionale).
Forse oggi lo collocheremmo tra i riformisti, ma un riformista di quelli che il Paese lo vogliono cambiare davvero, e non come alcuni sedicenti riformisti che oggi si dicono contro le riforme del premierato e della giustizia perché «signora mia, la nostra è la Costituzione più bella del mondo e non va toccata». Scusate la picconata, ma dato che siamo in tema…
Francesco Cossiga si dimise con due mesi d’anticipo, nell’aprile del 1992, a seguito del disastro della DC e dell’exploit della Lega di Bossi. Il suo partito perse il 4,5% e una quarantina di parlamentari rispetto alle elezioni del 1987. Il 25 aprile Cossiga annuncia le sue dimissioni con un messaggio televisivo, senza aver avvertito né Andreotti (Presidente del Consiglio) né De Mita (Presidente del Consiglio Nazionale della DC).
«Il voto del 5 aprile è il vostro colpo di spugna a un sistema politico che non privilegia la scelta dei programmi, ma la mediazione e il compromesso come fini a sé stessi; usa il potere solo per gestirlo… Con questo voto io credo che si sia voluto aprire uno spazio al rinnovamento del nostro sistema politico. […] Ai giovani io voglio dire però di amare la patria, di onorare la nazione, di servire la Repubblica, di credere nella libertà e di credere nel nostro Paese».
Finito il messaggio, invitò nel suo studio i direttori del TG1, TG2, TG3 e Gianni Letta, in rappresentanza delle reti Fininvest, e ordinò dello champagne: «Non sono più Presidente della Repubblica. Pago io.»
Forse, prima ancora delle elezioni del 1994, la Prima Repubblica finiva qui.
Alessandro Scimè