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Il venerdì santo di Ponzio Pilato. Riflessioni in margine a Il Maestro e Margherita

Ho avuto finalmente l’occasione di leggere Il Maestro e Margherita, di Michail Afanas'evič Bulgakov. In tanti me ne avevano parlato bene, ma non pensavo che sarebbe diventato presto uno dei miei libri preferiti.



Dentro c’è tutto: elementi storici e paranormali, una storia d’amore e una tragica, riferimenti letterari e critiche alla società di allora. A lettura finita, mi catturò più di altri la figura di Ponzio Pilato, personaggio complesso ed emblematico che nella storia ha un ruolo di primo piano.


Cercavo, dunque, nel mio piccolo, un’occasione per poterne scrivere qui sul Presente. E quale occasione migliore se non il periodo della Settimana Santa, e cioè proprio il periodo in cui si svolge la storia?


Il Maestro e Margherita


L’opera presenta una doppia storia: da una parte il protagonista assoluto è Woland, il Diavolo, che con la sua stramba compagnia visita la Mosca degli anni ’30.


C’è poi un romanzo nel romanzo: è la storia di Ponzio Pilato, scritta dal Maestro, uno dei protagonisti, uno scrittore perseguitato dall’autorità e dalla critica sovietica, che addirittura viene chiuso in un ospedale psichiatrico.


I capitoli del romanzo del Maestro su Ponzio Pilato, i totale 4, sono quindi inseriti da Bulgakov come capitoli “autonomi” nel romanzo.


Il Pilato di Bulgakov


«In un mantello bianco con la fodera color sangue, il passo strascicato dei soldati di cavalleria, alla mattina presto del quattordicesimo giorno del mese primaverile di Nisan, uscì tra le colonne del portico che univa le due ali del palazzo di Erode il Grande il procuratore della Giudea, Ponzio Pilato». Così si apre il secondo capitolo del romanzo, quello in cui viene introdotto il personaggio e la sua storia.

 

Come naturale che sia, questo Ponzio Pilato trae ispirazione da quello descritto nei Vangeli. Sappiamo che nei quattro Vangeli canonici la figura di Ponzio Pilato, pur rappresentata con sfumature differenti, ha dei tratti sostanzialmente comuni: è riluttante nel condannare completamente Gesù, preferisce essere prudente e, nel comportarsi così, con tutti i suoi dubbi, se ne lava le mani e lo condanna alla crocifissione.


Il confronto con Iešua Ha-Nozri


Fin dalla sua prima comparsa, Pilato è stanco e accusa continuamente una forte emicrania. Già dal primo capitolo il governatore romano incontra Iešua Ha-Nozri (Gesù di Nazareth ), accusato di aver istigato il popolo a distruggere il tempio di Eršalaim (Gerusalemme).


Iešua indossa una veste azzurra, vecchia e strappata, ha la testa ricoperta di una striscia di stoffa bianca con una sottile cinghia di pelle intorno alla fronte, e le mani legate dietro la schiena. Ha un grande livido sotto l’occhio sinistro, e a un angolo della sua bocca è sporco di sangue. Si rivolge a tutti con l’espressione “buon uomo” o “uomini buoni”, perché, a suo dire, «non ci sono al mondo uomini malvagi».


Dall’interrogatorio, che occupa buona parte del secondo capitolo, emerge un Ponzio Pilato che, esteriormente appare potente, autoritario e sicuro di sé, ma che, invece, all’interno è fragile, spossato e immerso in una triste solitudine.


Ad una nuova risposta di Iešua è talmente stanco da immaginare la strada più semplice per risolvere la questione: pronunciare la parola “giustiziatelo”, rientrare nel palazzo, abbandonarsi sui cuscini, farsi portare dell’acqua fredda e chiamare il fido cane Bangà, per lamentarsi con lui dell’emicrania. Ma non lo fa, e l’interrogatorio continua.


Iešua confessa di aver dichiarato dinnanzi alla folla che «crollerà il tempio della vecchia fede e verrà edificato il tempio della verità». Pilato gli chiede «che cos’è la verità?», e allora Iešua risponde:


«La verità è prima di tutto che ti fa male la testa, e ti fa male così tanto che tu pavidamente vagheggi la morte. Non hai la forza di parlare con me, non solo, ti è perfino difficile guardarmi. È come se io, non volendo, fossi il tuo carnefice, e questo mi addolora. Non poi pensare a niente e sogni solo che arrivi il tuo cane, l’unica creatura, a quanto sembra, per la quale provi attaccamento. Ma la tua sofferenza adesso finirà, il mal di testa passerà».


Bulgakov descrive un Ponzio Pilato visibilmente scosso dal sentire queste parole, si stringe la testa tra le mani e con il viso ricoperto dal terrore. Per la prima volta in vita sua, una persona gli ha letto dentro.


Iešua continua: «Il male è che sei rinchiuso in te stesso e hai perso del tutto la fiducia negli uomini. Perché non si può, converrai, riporre tutto il proprio affetto in un cane. La tua vita è squallida, Egemone».


Il doppio calvario


Più avanti nel capitolo, Pilato condanna Iešua alla crocifissione, chiama la scorta e lo fa portare via. Subito dopo ha un colloquio con Joseph Caifa, il capo del Sinedrio, al quale riferisce quanto avvenuto.


Pilato gli dice di aver esaminato il caso di Iešua Ha-Nozri e di aver confermato la condanna a morte. Come noto, quel giorno sarebbero stati condannati, oltre a lui, anche altri tre malfattori, e cioè Dismas ed Hestas (i famosi "due “ladroni”) e Bar-rabban (Barabba, ndr).


I due ladroni avevano sobillato il popolo contro Cesare, ed erano stati catturati in un assalto dalle autorità romane, e quindi erano da considerare sotto la responsabilità del procuratore.


Bar-rabban e Ha-Nozri, invece, erano stati catturati dall’autorità locale ed erano stati giudicati dal Sinedrio: per legge e per consuetudine, in onore dell’imminente festa di Pesach (la Pasqua ebraica), uno di questi due delinquenti andava rimesso in libertà.


Pilato chiede, quindi, a Caifa quale dei due criminali il Sinedrio intendesse liberare. Quando il sommo sacerdote gli risponde Bar-rabban, il procuratore finge stupore, vuole capire la ragioni che hanno spinto il Sinedrio a tale scelta.


In fondo, Iešua era solo un pazzo, Bar-rabban, invece, aveva incitato direttamente la folla alla ribellione e ucciso la guardia che aveva tentato di fermarlo. I due crimini non erano paragonabili.


Pilato chiese conferma una seconda e poi una terza volta a Caifa, e questi rispose per una seconda e per una terza volta che ad essere liberato sarebbe stato Bar-rabban. Pilato non poté far altro che prenderne atto.


«Era tutto finito, non c’era niente da aggiungere. Ha-Nozri se ne andava per sempre, e non ci sarebbe stato più nessuno a curare la perfida emicrania del procuratore; non ci sarebbe stato altro rimedio se non la morte. Ma non era questo pensiero che colpiva ora la mente di Pilato.


La stessa incomprensibile angoscia che lo aveva visitato quando era sotto il portico penetrò tutto il suo essere. Cercò subito di trovare una spiegazione, e la spiegazione era strana: il procuratore aveva la sensazione confusa di non avere detto tutto al condannato, o forse che ci fosse qualcosa che non aveva ascoltato fino in fondo».


Qui si manifesta il travaglio interiore: non può fare ciò che è giusto per paura delle conseguenze politiche. È impotente, non può andare contro l’autorità spirituale locale. È come se, mentre Iešua è destinato ad affrontare un calvario fisico, Ponzio Pilato ne deve affrontare uno interiore, spirituale.


La catarsi di Ponzio Pilato


Nel capitolo conclusivo dell'opera di Bulgakov, il trentaduesimo, chiamato Il perdono e l’eterno rifugio ritroviamo, infine, Ponzio Pilato. La storia principale, quella del Maestro, di Margherita e del Diavolo Woland si intreccia con la sua: i tre arrivano a cavallo, dopo un viaggio surreale in una notte di luna piena, su una landa di pietra dove non ci sono altro che montagne. In mezzo alla desolazione c’era un seggio dov'è seduto proprio Pilato, con accanto il suo cane-guardiano Bangà.


«Il suo romanzo è stato letto, e ne è stato detto soltanto, che, purtroppo, non è finito», dice Woland al Maestro. «Così volevo mostrarle il suo eroe. Da quasi duemila anni siede su questa vetta e dorme, ma quando sorge la luna piena, come vede, è torturato dall’insonnia. L’insonnia non affligge lui solo, ma anche il suo fedele guardiano, il cane. Se è vero che la viltà è il vizio più penoso, allora, forse, il cane non è colpevole. […] E così, chi ama deve dividere la sorte dell’amato».


Woland racconta poi al Maestro e a Margherita di come Pilato sognasse da sempre un sentiero di luna, con in fondo Ha-Nozri, a causa del proprio rimorso per non avergli detto tutto quella volta, e di come non riesca mai a incamminarsi su quel sentiero e di come nessuno venga da lui.


A questo punto il Diavolo si rivolge al Maestro, dicendogli che, adesso, ha la possibilità di concludere il proprio romanzo con una sola frase. «Sei libero, lui ti aspetta!», grida il Maestro, e fu allora che Ponzio Pilato si alza e insegue il suo cane, che aveva cominciato a correre proprio sul sentiero lunare.


È qui che avviene la catarsi finale di Ponzio Pilato. La catarsi che è come una pulizia. Non che ci sia qualcosa si sporco, intendiamoci: è il bisogno di tutti quanti noi di stare meglio e riuscire a risolvere un problema.


Quando abbiamo una malattia, un’influenza, possiamo provare a prendere tutte le tachipirine che vogliamo, ma il problema non si risolve mai immediatamente. Servono dei passaggi: ad alcuni serve la fase del vomito, ad altri la fase della febbre. Ma prima di poter stare bene bisogna prima stare male, e Ponzio Pilato è stato male per quasi duemila anni.


Con la conclusione del romanzo, finalmente il procuratore della Giudea può risolvere il proprio problema interiore e andare finalmente in contro al proprio destino.


Chi era Michail Bulgakov?


Bulgakov nasce nel 1891 a Kiev, allora facente parte dell’Impero Russo. Il padre era un teologo e professore di Storia delle religioni occidentali all’Accademia Spirituale di Kiev, e infatti l’influenza dei temi religiosi traspare da quasi tutte le opere del figlio.


Si iscrive alla facoltà di Medicina nel 1909 e per 11 anni lavorerà tra ospedali civili e da campo (tra la Prima guerra mondiale e la guerra civile), specializzandosi nel trattamento di malattie infettive e veneree.


Nel 1920, quando comincia ad instaurarsi il potere sovietico, abbandona la professione medica per darsi alla scrittura e al teatro. Una volta stabilitosi a Mosca con la moglie, collabora con un paio di giornali e quotidiani, per i quali pubblica diversi racconti.


Tra gli anni ’20 e gli anni ’30 riceve la tessera di membro dell’Unione panrussa degli Scrittori, pubblica e mette in scena al teatro diverse opere (la più famosa è la commedia I giorni dei Turbin, che supererà le cinquecento rappresentazioni), si sposa una seconda volta per poi divorziare di nuovo, e nel 1929 conosce Elena Sergeevna, sua terza e ultima compagna di vita.


Nel 1928 comincia a lavorare al primo abbozzo del Maestro e Margherita, anche se questo titolo non comparirà fino al 1932. L’opera ha cambiato titolo diverse volte, tant’è che Bulgakov si riferiva a quest’opera con l’espressione “il mio romanzo sul Diavolo”.


Negli anni ’30 lavorerà al Teatro accademico dell’Arte di Mosca su proposta dello stesso Stalin, che prima gli aveva negato la richiesta di espatriare. In questi anni lavorerà ad altre opere (teatrali e non) e continuerà il lavoro sul suo romanzo sul Diavolo.


Alla fine del 1939 si ammala di nefrosclerosi, la stessa malattia che aveva cagionato la morte del padre. Morirà il 10 marzo 1940, e fino a pochi giorni prima ancora dettava a Elena Sergeevna le ultime correzioni al romanzo. Questo verrà infine pubblicato sulla rivista Moskva tra il 1966 e il 1967.


Alessandro Scimè

 
 
 

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