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Imperium. Indagine sulla civiltà russa tra passato e presente, un’ispirazione per l’Europa smarrita?

«Un uomo con una psicologia spiccatamente egocentrica si considera inconsciamente il centro dell’universo, tutto ciò che gli assomiglia è migliore mentre il diverso, selvaggio, inferiore» così il Prof. Nikolaj Trubeckoj ne L’Europa e l’umanità espresse come assunto per l’emancipazione culturale dei popoli, il rifiuto dello sciovinismo eurocentrico degli occidentali e come la loro pretesa universalità abbia condizionato i processi evolutivi della maggior parte delle civiltà entrate in contatto con loro, tra cui la Russia. In particolare durante i 196 anni dell’Impero, sedotti dal fascino dell’Occidente gli zar da Pietro il Grande in poi, furono ossessionati dall’aspirazione alla totale europeizzazione della vita russa, provocando una profonda crisi d’identità, fino al suo collasso nel 1917.


L’attualità ci impone di considerare questo unicum per le trasformazioni che ha affrontato nel corso della sua storia, delle quali oggi ne è il risultato diretto e come relazionarci con esso. Ma per comprendere la sua coscienza, la sua percezione interiore, la psicologia collettiva, è fondamentale approfondire il suo passato oltre che il presente. Partendo dalla distinzione, indicata dal filosofo Aleksandr Dugin ne L’ultima guerra dell’Isola-Mondo tra: Russkii ovvero l’identità etnico-sociale russa e Rossiisskii la Federazione Russa, lo Stato. Distinte ma complementari queste nozioni sintetizzano tutta la natura imperiale dei russi e si esprimono armoniosamente ogni anno il 9 maggio, per la ricorrenza della Giornata della Vittoria. Un evento che li tocca profondamente, basti pensare alla marcia trionfale più famosa di origine sovietica che accompagna lo sfilamento della bandiera, la «Svjaščènnaja Vojnà» «La guerra sacra» esordisce infatti con: «Vstavàj, stranà ogròmnaja!» «Alzati, immenso Paese!». Il testo, caratterizzato da una forte potenza comunicativa, rivela un approccio sacro e passionale alla guerra lontano dalla logica eurocentrica di aggressione e conquista. Osservando i principali conflitti in cui la Russia si è resa protagonista nelle aree contigue ai suoi confini negli ultimi vent’anni, dalla Cecenia, alla Georgia fino all’Ucraina, il fattore scatenante è stato infatti principalmente di natura emotiva, legata al trauma di un distacco dalla sfera affettiva della Madrepatria di alcune etnie, considerate parte dello stesso universo culturale più che per interessi economici o di potere. Si tratta di un legame spirituale dalle radici profonde. Inizia nel 862 con il leggendario eroe vichingo Rurik il Variego, il primo monarca sacro della storia russa, la cui dinastia i rjurikidi, fondò la Rus’ di Kiev e dalla quale discesero tutti gli zar. La venerazione divina del monarca è legata alla simbologia e alla spiritualità dello zoroastrismo, culto molto diffuso in quelle regioni embrionali del futuro Impero russo, prima di essere sublimato dalla Chiesa ortodossa. Le steppe del Mar Nero fino agli Urali appartenenti all’antica Scizia e Sarmazia erano chiamate anticamente Grande Svezia, la cui radice del nome deriva dal russo svyatoj “santo”. Chi deteneva il potere regale aveva un diritto speciale di governare, la facoltà di possedere una forza luminosa chiamata Khvarenah che equipara gli uomini agli dei. I simboli di questa sacralità erano il falco, la cui traduzione in scandinavo era appunto Rurik e l’ariete. Dal battesimo della Rus’ tutti i sovrani e gli zar successivamente venivano definiti l’Unto da Dio e appunto ariete. Questo misticismo ci permette di comprendere quanto la simbologia e la geografia sacra riflettano un destino di dimensioni cosmiche e abbiano determinato il loro processo evolutivo storico.


Il concetto universale di Santa Russia è legato proprio alla simbiosi tra mitologia precristiana e ortodossia, sublimata poi dalle invasioni tataro-mongole di Gengis Khan, dove al ruolo dei sovrani verrà conferito non più solo potere monarchico e spirituale ma etnico, di rappresentante di tutte le popolazioni dell’impero e costituirà il collante per il narodnost. Una forma di patriottismo che non può essere paragonata al classico nazionalismo europeo e che ha permeato la loro psiche scivolando nella sfera dell’inconscio, tanto che i russi moderni conservano una predisposizione all’autoritarismo e lo preferiscono al caos della democrazia. Ciò che per gli occidentali è considerato autocrazia per loro è sinonimo di stabilità e sicurezza sociale, qualcosa che deve garantire potere e grandezza.


Analizzando il cuore etnico della civiltà russa, una delle più grandi semplificazioni è quella di definirla slava, niente di più riduttivo. Secondo Nikolaj Danilevskij rappresenta un tipo storico-culturale unico, effetto di un percorso evolutivo estraneo al mondo romano-germanico e ha acquisito tratti del carattere tipicamente turchi e asiatici «più fatalismo, più folle coraggio e una maggiore sottomissione all’autorità». Pertanto l’essenza del narod il popolo, va ricercata nell’Heartland geopolitico, il loro io nazionale ha origine proprio in quelle terre incastonate tra il Kazakhstan e la Mongolia, dimore un tempo del più vasto impero della storia. L’etnologo russo Lev Gumilëv ne Ethnogenesis and the Biosphere of Earth spiegava appunto come le differenze etniche e la genesi dei popoli si basassero proprio su fattori geografici e le specifiche condizioni climatiche di quello spazio territoriale prostantvo abbiano permesso di forgiare una stirpe gloriosa di nomadi-guerrieri, artefici dell’identità dei russi. L’elemento turco-mongolo ha il merito di aver spezzato la continuità dell’evoluzione storica della Russia, dotandola di un’organizzazione statale che mancò nell’epoca kieviana e l’unificazione dello spazio eurasiatico in una perfetta simbiosi con gli slavi.

«Senza i Tatari non ci sarebbe stata la Russia» diceva il geologo Pëtr Savickij. Il concetto imperiale tra sacralità, storia e narodnost è il sunto della missione messianica di questa civiltà e del suo ruolo geopolitico di guida del blocco della Tradizione, per sottrarre quelle realtà nel mondo dal declino del progressismo, l’Europa in primis la quale è destinata al nanismo politico. Il nostro continente non sarà mai nazione finché non ritroverà la sua missione storica, una spiritualità che non sia necessariamente solo il Cristianesimo, un destino comune libero dalla Anglosfera ed elemento più importante, riavvicinandosi al suo spazio naturale come profetizzato nel 1892 dal geografo Vladimir Lamanskij «L Europa è una penisola dell’Asia e con questo costituisce un solo insieme che possiamo chiamare “Continente asiatico-europeo”». Accettare questa vocazione geostorica è la chiave per evitare l’estinzione ed affrancarsi dal ruolo di oggetto e non soggetto politico.


Cesare Taddei


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