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L’euro compie 25 anni, ma l'Italia fatica a fare festa

Di tutte le novità nate dal 1992, data della fondazione ufficiale dell’Unione Europea, quella più iconica e discussa è certamente l’euro. Moneta nata ufficialmente nel 1999, poi introdotta fisicamente nel 2002, l’euro ha rivoluzionato i sistemi economici dei Paesi europei, generando innumerevoli opportunità ma anche diversi problemi.



Per non perderci in dettagli troppo complessi, ci focalizzeremo sull’Italia e su come l’euro abbia impattato la nostra economia.


Una scelta politica:


L’idea di una moneta comune in UE nasceva già dalla vecchia Relazione Delors, che prevedeva tre fasi per l’introduzione da portare avanti tra il 1990 e il 1999. Le prime disposizioni per l’introduzione furono inserite nel Trattato di Maastricht e dovevano servire ad allineare e uniformare le economie dei Paesi membri, al fine di evitare shock estremi in seguito al cambio valutario.


Tra questi parametri i due più rilevanti (che ancora oggi ci portiamo dietro) sono un deficit pari o inferiore al 3% del prodotto interno lordo e un rapporto debito/PIL inferiore al 60% (o che strutturalmente tenda a questa soglia).


Questi due parametri sono già enormemente discussi: il primo, in particolare, non è basato su alcuna evidenza economica e la soglia del 3% è stata scelta a tavolino, senza che vi fossero reali teorie economiche, analisi di dati o evidenze storiche che la giustificassero. Questo dovrebbe far riflettere, considerando che ancora oggi in caso di deficit eccessivamente alti si rischia che la Commissione europea apra una procedura di infrazione.


Il secondo parametro, invece, doveva essere rispettato obbligatoriamente da tutti i Paesi che adottavano l’euro. Il lettore, però, si renderà conto che, se questa regola fosse stata rispettata, un paese come l’Italia, che nel 1999 aveva un rapporto debito/Pil del 114%, non avrebbe mai potuto avere accesso all’area euro.


Qui però intervennero ragioni di tipo politico e competitivo: politicamente era impossibile negare a Paesi importanti, economicamente rilevanti e strategicamente fondamentali, come l’Italia o la Spagna, l’accesso alla moneta. Inoltre, se l’euro fosse stato introdotto solo per i Paesi del nord-Europa (quindi Germania, Belgio, Paesi Bassi, Francia, ecc.), il rischio sarebbe stato quello di creare una competizione valutaria all’interno dell’Europa. Infine, essendo la lira e la peseta monete molto svalutate, Italia e Spagna avrebbero avuto incentivi all’export troppo forti, danneggiando la competitività delle economie del nord. [1]


Per questi motivi dunque, si decide di aggiungere, un po’ a modo di nota a piè di pagina, ciò che prima ho scritto tra parentesi (“o che strutturalmente tenda a questa soglia”) e di ammettere Italia, Spagna, Portogallo e Grecia nell’euro, nonostante il loro rapporto debito Pil fosse di molto superiore alla soglia limite, facendo promettere a questi Stati di adottare misure finalizzate alla riduzione del debito.


Così dunque, nel 1998, nacque la BCE, per controllare la politica monetaria dell’Unione e nel 1999 nacque l’euro virtuale, per iniziare a testare i parametri e l’impatto della nuova moneta, mentre l'1 gennaio 2002 entrò ufficialmente in vigore l’euro. Con la nascita dell’euro e della BCE, i Paesi europei cedettero la sovranità su tassi di interesse e sulla politica di cambio con l’estero alla Banca Centrale Europea, godendo però di una valuta unica e quindi priva di costi di conversione tra Paesi.


Che ci ha portato vantaggi?


I vantaggi che l’euro ha portato al nostro Paese sono diversi, il primo di questi è stata la possibilità di esportare i nostri beni in tutti i Paesi dell’Eurozona, senza doversi preoccupare dei costi del cambio valutario e senza subire gli effetti distorsivi che un cambio del valore relativo di due valute poteva generare al commercio. Tra il 2005 ed il 2008, per esempio, una volta stabilizzato il nuovo regime monetario, l’export italiano è aumentato di oltre il 16%, certamente anche grazie all’abbattimento delle barriere commerciali e all’euro.


Nonostante ciò, l’Italia ha comunque perso la possibilità di effettuare svalutazioni competitive per migliorare il proprio export nel breve periodo e chi più ha guadagnato dall’introduzione dell’euro è stata la Germania, che ha potuto esportare in tutta Europa i suoi beni prodotti dall’industria pesante.


Il secondo e forse ancor più grande vantaggio, però, fu quello di stabilizzare le aspettative che i mercati avevano sul debito italiano.


Grafico raffigurante un confronto tra Italia e Francia in termini di tasso di interesse sul debito e di deflatore del PIL. Fonte del grafico: Altervista Fonte dei dati: ISTAT.

Come vediamo dal grafico (ignoriamo per ora il deflatore del PIL) il tasso di interesse pagato sul debito dall’Italia nel 1990 si stabilizzava intorno al 13%. Dal 1992, anno del Trattato di Maastricht, in poi è sceso in maniera costante, anche grazie alle misure introdotte dai governi italiani per contenere le spese e grazie alle aspettative del mercato, che ritenevano ora l’Italia un Paese più sicuro in cui investire (se il debitore a cui presto soldi è più sicuro, gli chiederò di pagare un interesse minore in quanto sto assumendo un rischio minore).


Inoltre, dal 2002 in poi, il tasso ha continuato a scendere in maniera costante, fino alla crisi del 2008, che ha aumentato il rischio percepito nell’investire in debiti sovrani. Se l’Italia uscisse dall’euro oggi, anche rimanendo in UE, dovrebbe fronteggiare un’impennata degli interessi sul debito, probabilmente ritornando anche ai livelli pre 1990.


Abbiamo poi un calo anche del deflatore del PIL, il quale è il rapporto matematico tra il PIL nominale e il PIL reale (ovvero il PIL che non tiene conto dell’effetto dell’inflazione). Senza andare troppo sul tecnico, più alto è il valore del deflatore, più il Pil cresce a causa dell’inflazione (che aumenta i prezzi) e non grazie a una maggior produttività. Dal 2002 in poi, avendo adottato una moneta stabile e meno soggetta all’inflazione rispetto alla lira, il deflatore è calato molto, dimostrando come l’euro abbia aiutato a risolvere il problema dell’inflazione elevata in Italia.


Al costo di una perdita di competitività:


Non è però tutto oro ciò che luccica. L’euro, infatti, è una moneta disegnata per adattarsi bene a economie che importano molte materie prime e che hanno un modello economico basato su grandi imprese. In pratica, è perfetto per il modello tedesco e non adatto al modello economico italiano. L’euro, inoltre, è una delle cause del blocco della produttività in Italia, che è in declino dal 2000 in poi, sia a causa di fattori strutturali (pochi investimenti in ricerca, scarsi investimenti per l’innovazione, sistemi di management arretrati…) che a causa di questa moneta inadatta al nostro sistema economico.


La produttività del lavoro in Italia è cresciuta solo dello 0,5% all’anno tra il 2014 ed il 2022 e dello 0,4% tra il 1995 ed il 2022, contro circa il 2,2% degli Stati Uniti e l’1,2% dell’UE. Siamo terribilmente sotto la media. E questa scarsa produttività del lavoro si riflette poi in una decrescita del valore reale dei salari e in una stagnazione economica, che solo negli ultimi anni sembra essersi arrestata. La produttività non può essere aumentata senza investimenti ingenti in innovazione, gli investimenti in innovazione non possono essere effettuati senza stimoli all’economia e parallelamente non è possibile dare stimoli all’economia e investire a livello statale in ricerca, rispettando i parametri europei a meno di tagliare altri servizi.


L’Italia, in termini di produttività, è in una gabbia sempre più stretta e l’euro non è altro che una delle sbarre che, certamente, da un lato ci sorregge ma dall’altro ci impedisce, soprattutto, di fuggire.


Uscire non ha senso, ma si può fare qualcosa?


Nonostante l’euro abbia avuto anche effetti negativi sul nostro Paese, oggi è impensabile ritornare alla lira e farsi divorare da interessi rampanti sul debito e da un’inflazione che polverizzerebbe il potere di acquisto delle famiglie nel giro di pochi anni. Tuttavia, è evidente che l’euro non sia una moneta adatta al sistema economico italiano e che sia stata invece disegnata per adattarsi perfettamente alle economie del nord come Germania e Paesi Bassi.


Le vie per risolvere questo problema sono in realtà due: la prima è la via politica, agire cercando di rinegoziare a livello europeo i parametri di Maastricht e di cambiare le scelte della BCE, che si concentra molto sul controllo dell’inflazione ma ignora (da statuto) questioni come il tasso di occupazione e la stabilità dei cambi con l’estero. Questa prima strada è però estremamente complessa.


La seconda via, forse ancora più ardua, consisterebbe nel rimodellare la nostra economia sui modelli del nord, spingendo alla nascita di grandi industrie molto specializzate e innovative, cosa a oggi impensabile senza danneggiare il tessuto di piccole-medie imprese che caratterizza e rende forte il nostro Paese.


Nel tempo, però, la scarsa produttività, derivante in parte da fattori strutturali e in parte dall’euro, finirà per uccidere la nostra economia, per questo serve al più presto risolvere il problema della produttività per non ritrovarci come il malato che continua a imbottirsi di farmaci, metafora dell’euro, per stabilizzare la propria condizione, senza però trovare una vera cura.


Matteo De Guidi


[1Una moneta svalutata incentiva l’export, al contrario una moneta apprezzata incentiva l’import. Questo perché, se la moneta è svalutata, i beni che si esportano all’estero risultano più convenienti all’acquisto da parte dei consumatori stranieri.

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