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L’Europa è morta

L’utopia della nazione-continente, come l’egoismo ha ucciso l’anima degli europei

 

 

«L’Europa è morta amici miei e noi siamo orfani di Patria». Avevo 8 anni ed era una calda sera di agosto, tra l’afa e le zanzare, in quel casolare nella campagna di Aix-en-Provence, sede in passato delle cosiddette università d’estate. Fino ai primi anni 2000, infatti, tutta l’intellighenzia europea era solita ritrovarsi lì in una specie di comune hippie dove per una settimana si viveva insieme, tra buon cibo e musica, a parlare fino a notte fonda di politica e cultura. Molto tempo dopo avrei dato un braccio pur di parteciparvi e mangiare alla stessa tavola insieme a personaggi come Alain De Benoist, Robert Steuckers ecc.

 

Uno degli organizzatori era un marsigliese dai modi burberi, Maurice Rollet, con la passione per il pastis, strano. Tralasciando una volta in cui mi rincorse nella sala da biliardo con il desiderio di strozzarmi per aver pisciato su un menhir di un cimitero celtico lì vicino, offeso, oltre che dal gesto, dalla mia risposta «eh quante storie per un sasso». Beh, quella sera si lanciò in un lungo monologo e tutta la tavolata ammutolì. Lo ricordo bene perché mi impressionò come la musica e l’allegria intorno a me si spensero all’improvviso.

 

Quella frase in apertura, intrisa di un brutale disfattismo, l’ho sentita più volte nell’arco della mia adolescenza, soprattutto durante la militanza politica da chi, con qualche capello bianco e molti libri più di me, cercava di uccidere lo spirito tipico dei 20 anni, il rifiuto di tutto ciò che è ineluttabile. E invece fu sempre lo stesso fuoco dell’Europa che mi spinse ad arruolarmi negli alpini, prima, e poi a volgere lo sguardo a nord, in Belgio.

 

Ricordo il primo giorno in quella caserma sperduta nei boschi delle Ardenne, tutti i miei camerati mi guardavano come fossi un alieno e io ripetevo a me stesso, per motivarmi, le parole di Drieu La Rochelle: «dobbiamo costruire una Patria compatta come un blocco d’acciaio». Sono sempre stato sensibile a un certo tipo di romanticismo ideologico. Sentivo infatti nel mio cuore di vivere una missione politica, con un significato preciso, per la quale stavo sacrificando tempo e forze, lontano dai miei affetti, per dimostrare che si potesse costruire una nazione europea e che, laddove i politici avevano fallito con le loro chiacchiere, l’esercito avrebbe raccolto l’onere di fare da esempio, mettendo da parte gli egoismi e ponendo le basi della rinascita.

 

Volevo sentirmi parte di qualcosa di più grande, scappare dal provincialismo endogeno, essere solo italiano mi soffocava. Noi, i pretoriani della carbonara. Nonostante i camerati francofoni mi ricordassero ogni giorno quanto fossi a loro sgradito, solo perché straniero, «sei venuto a rubare il lavoro ai belgi», «tornatene a casa tua»; ci credevo davvero, prima di vedere infrangersi quel sogno sugli scogli della realtà. Ho approfittato di ogni occasione per raccogliere idee e spunti di riflessione. In questi anni, prima come truppa, oggi come cadetto sottufficiale della Marina, ho lavorato a stretto contatto, in particolare, con olandesi e francesi e da civile ho partecipato a diversi eventi giovanili al Parlamento Europeo.  

 

L’estate scorsa all’EYE 23 sono pure riuscito a parlare davanti a centinaia di ragazzi arrivati da ogni parte del Continente. E ponendo sempre la stessa domanda: che cosa accomuna gli europei di oggi per costruire una nazione insieme? A parte l’iniziale cortocircuito, ricevevo nella maggior parte dei casi una serie di parole retoriche sulle comuni radici romano-germaniche, il cristianesimo e bla-bla-bla. Ma sapete quanto gliene può importare della storia a un ragazzo di Stoccarda per sentirsi vicino a uno di Catania?

 

A prescindere dall’estrazione sociale e dal livello d’istruzione, ogni europeo si sente prima di tutto legato alla propria nazionalità d’origine e spesso molto più alla propria regione (parlate con un basco, un bavarese, un bretone o un corso e capirete), poi, forse, può venire il resto ma senza neanche saper esattamente dare una definizione all’essere europei.

 

E non c’entra nemmeno tutta la demagogia riguardo l’UE, che ha perso il contatto con i giovani diventando qualcosa di distante e indefinito, l’Unione Europea non è l’Europa continente, e viceversa, (figuratevi, se fosse per me, vi includerei anche la Turchia). Se già all’interno delle stesse nazioni i regionalismi marcano le distanze, un fiammingo, per esempio, conosce ma non parla volutamente il francese perché odia essere comandato da un vallone; allora come possiamo pretendere che un polacco possa sacrificarsi per un tedesco, uno sloveno per un italiano e così via?

 

Finché gli europei non avranno una missione comune sono destinati a estinguersi. Ciò che contraddistingue le altre civiltà non è la superiorità economica e militare o, meglio, non solo, bensì la coscienza nazionale. I popoli sono consapevoli del bagaglio storico-culturale di cui sono eredi, senza tuttavia chiudersi in esso con la pretesa di insegnare al mondo come si vive, e si sentono partecipi soprattutto, ognuno in modi diversi, di una responsabilità sociale che potremmo definire romanticamente "missione messianica".

 

I cinesi, di un sistema economico-sociale competitivo e moderno, i russi baluardo della Tradizione e dell’ortodossia contro la decadenza dell’Occidente, i turchi con il neo-ottomanesimo ecc. Questi popoli sentono, anche inconsciamente, di avere un valore aggiunto rispetto agli altri, di vivere in una comunità destinata alla potenza e alla grandezza, sono affamati ed entusiasti. Mentre noi europei siamo frustrati, annoiati, in balia di un’indifferenza disumana. Il benessere personale del singolo, i suoi bisogni, le sue paure prevalgono su tutto. Ma senza l’amore per l’altro come ci si può sentire patrioti?

 

Questo egoismo sintomatico ha infettato i popoli e di conseguenza le nazioni. Essendo le stesse composte da agglomerati umani ne rispecchiano i comportamenti, le debolezze e i desideri. Non sono entità astratte o scevre dalle emozioni, al contrario sono fragili e contraddittorie esattamente come le persone.

 

Rifiutare l’egoismo, pertanto, significa sacrificarsi per qualcosa di più profondo e superiore, non è restando solo italiani, francesi o tedeschi che potremo sopravvivere in un mondo che si evolve e aspetta di schiacciarci. Bisogna rinunciare a qualcosa. In quel grande pollaio a Bruxelles, tra sgambetti e rancori, vediamo il limite di un apparato burocratico, nato dopo il picnic di Yalta, niente a che vedere con il concetto di impero e civiltà, pertanto, come possiamo credere che saranno la pace, la diplomazia o, peggio, le giocolerie di palazzo a costruire le fondamenta della nazione europea?

 

Tra l’altro, non esiste esempio nella storia umana di una nazione costruita sulla base di accordi amichevoli e senza la violenza. Al contrario ogni volta è stato un segmento sociale a prendere prepotentemente il sopravvento su tutti gli altri. Non accettarlo sarebbe come credere che possa esistere una realtà senza guerre, forse sì, in un mondo senza esseri umani.

 

Ad ogni modo, io ho perso quel fuoco, la sensazione di immortalità che solo la militanza politica ti regala e l’idea che qualcosa di straordinario possa accadere in ogni momento e che tu possa farne parte nel tuo piccolo. Mentre assisto alla morte dell’Europa comprendo io per primo di non avere le risposte alle mie domande, orfano di una Patria onirica, morso dallo stesso vuoto che inconsapevolmente mi aggredì quell’estate di oltre vent’anni fa.


Cesare Taddei

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