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L'état du maréchal: la francia di Vichy, sotto il maresciallo Philippe Pétain


14 giugno 1940. Parigi, la gloriosa capitale di Francia che aveva resistito alla sesta coalizione antinapoleonica e alle truppe del Kaiser, cade sotto l’occupazione del preponderante nemico tedesco.


È il simbolo di una caduta non solo militare, ma soprattutto politica per la Terza Repubblica. Nata dalle ceneri del Secondo Impero e rafforzata dalla vittoria sulla Comune, aveva forgiato la sua forza sul revanscismo anti-germanico e su una spiccata volontà di rinascita democratica e culturale (quest’ultima in piena continuità con l’opera di Napoleone III).


Infatti, la vittoria, l’armistizio dell’11 novembre 1918 e il Trattato di Versailles giocarono un ruolo non indifferente in questa vicenda. La volontà non necessaria e irrimediabilmente dannosa di schiacciare territorialmente ed economicamente la Germania ebbe come drastica conseguenza una “ricompattazione accelerata” spirituale e sociale da parte tedesca.


Questa situazione fu abilmente sfruttata da politici e politicanti radicali o filoradicali quali Adolf Hitler, Ernst Röhm, Hermann Göring ed Erich Ludendorff. La “totalitarizzazione” della politica tedesca, gli effetti della crisi del 1929 e il blocco della democrazia francese, incapace di uscire indenne dalla crisi, contribuirono al crollo di un sistema. La conseguente radicalizzazione delle posizioni determinò il crollo di un sistema, oramai falcidiato da lotte interne sempre più aspre tra il Fronte Popolare di Léon Blum e i partiti più conservatori e reazionari. Questi ultimi, ampiamente rappresentati nelle fila dell’esercito, erano sempre più convinti della necessità di un’Union Sacrée interna per fermare l’avanzata delle sinistre e la presunta sovietizzazione della Francia.


Complici una serie di errori strategici (l’illusione di una ripetizione sul modello del primo conflitto mondiale, quindi una sorta di secondo Piano Schlieffen per un attacco dal Belgio) e, soprattutto, una mancata modernizzazione tattica (il difensivismo di Pétain, Joffre e Gamelin aveva prevalso su dottrine più offensiviste come quelle proposte dall’ammiraglio Darlan o dal generale De Gaulle).


Nel 1928, infatti, fu avvallato, grazie all’enorme influenza dei “difensivisti”, il piano di costruzione dell’imponente Linea Maginot, finalizzata alla difesa da un ipotetico attacco tedesco e italiano (esisteva anche una linea alpina meno fortificata). Comunque, tutto questo non bastò a evitare il disastro.


La meccanizzazione dell’esercito tedesco, l’innovazione tattica inaugurata dai generali von Seeckt e Guderian, la cosiddetta Blitzkrieg (“guerra lampo”) e infine l’abilità dei generali von Manstein, von Rundstedt e Halder determinarono un tale divario qualitativo da impedire la minima possibilità di “salvezza istituzionale” da parte francese.


Il 16 giugno 1940 il Maresciallo di Francia ed eroe di Verdun Philippe Pétain diventa il nuovo presidente del Consiglio, succedendo a Reynaud. Sin da subito si prodiga per intavolare trattative con i tedeschi per un armistizio che si sarebbe preannunciato certamente umiliante.


Così fu. Il 22 giugno 1940, nella piccola città di Rethondes, alla presenza dei più moderni mezzi di comunicazione, impiantati apposta per l’occasione e destinati a riprendere il momento storico, la delegazione francese ripeté, a parti invertite, il medesimo copione di 22 anni prima, nello stesso vagone dell’11 novembre 1918.


La Francia è divisa in due: la zona settentrionale, occupata e militarizzata, posta sotto il diretto comando germanico e la zona meridionale destinata al nuovo governo. Proprio nella cittadina termale di Vichy, interna, molto vicina al confine occupazionale e ampia dal punto di vista della disponibilità alberghiera, determinante per ospitare i membri del governo, il nuovo capo di stato si insedierà insieme al suo governo.


Nasce così “l’état du maréchal”, lo stato del maresciallo. Il più fervido antitedesco di Francia alla guida di un esecutivo di emergenza e destinato a ricostruire su nuove basi morali e politiche la compattezza nazionale.


Maurassiani, nazionalisti, monarchici e fascisti confluiscono in questo progetto che, per l’appunto, rappresentò una sorta di comunione tra la Terza Repubblica, della quale si esaltavano le virtù e i tratti più congrui al nuovo regime, quindi spirito di rivalsa, moralità e conservatorismo sociale; ma allo stesso tempo si ripudiavano i difetti quali l’instabilità, la democrazia parlamentare (a Vichy ufficialmente esisteva un parlamento ma Pétain non lo convocò mai) e la modernizzazione dei costumi (tra questi, il giusto tentativo di estirpare, per quanto il contesto politico e culturale lo consentissero, l’antisemitismo dalle fila dell’esercito - si veda il caso Dreyfus).


Alla fine, ciò che nacque fu un governo reazionario, che, secondo la propaganda del tempo, era intento a modernizzare la Francia e salvarla dal degrado delle precedenti amministrazioni, le quali avrebbero tentato una spaventosa sovietizzazione ai danni dei cittadini e dello Stato.


Il maresciallo Pétain fu non solo l’arbitro, ma anche il protagonista di questa svolta, alla quale molti francesi aderirono in quanto convinti di essere stati abbandonati dai propri alleati britannici e in quanto fiduciosi nei confronti del proprio eroe di guerra.


Certo è che questa “esperienza sedicente restauratrice” per la Francia divenne a lungo andare un terribile fiasco. Nel 1942, in piena operazione Barbarossa, dopo aver constatato che Vichy non aveva alcuna intenzione di combattere contro un eventuale sbarco alleato nel suo territorio e visto l’inaspettato ammutinamento del capo della marina nazionale, ammiraglio Darlan, passato quindi nello schieramento alleato, l’alto comando tedesco ritenne opportuna un’entrata in guerra dello Stato Francese, per sopperire certamente alla lenta perdita di uomini sul campo, ma soprattutto per evitare un'invasione su larga scala dal meridione.


Nacque così l’operazione Anton. I generali Johannes Blaskowitz e Mario Vercellino attaccarono con forza la cosiddetta “zona Sud” e la obbligarono a entrare in una guerra non voluta e per la quale il maresciallo Pétain, e tutto il suo entourage, avrebbero pagato il prezzo più grande: la fine di ogni autonomia e del progetto restauratore. Terminava così lo Stato del maresciallo per dare il via all’état occupé, dal quale la resistenza francese nacque e si consolidò.


Il 6 settembre 1944 tutto cessò di esistere. Vichy e la zona Sud furono occupate dalle truppe alleate, mentre il governo istituì una commissione a Sigmaringen, in Germania, con la quale organizzarsi soprattutto in vista di eventuali e sempre più urgenti trattative di pace. Non servì a nulla. All’arrivo delle truppe francesi a Sigmaringen, alcuni membri della commissione furono catturati e condannati alla massima pena per alto tradimento. Il maresciallo Pétain si consegnò alle autorità svizzere per poi essere processato e condannato prima alla fucilazione e poi al carcere a vita.


Così cessò l’idea di Vichy. L’idea di uno stato creato apposta per restaurare attraverso innovazioni politiche, sociali e militari. Una volontà di modernità reazionaria che il tempo e la democrazia hanno consegnato alla storia, ma certamente e innegabilmente capace di coinvolgere chiunque nella macabra e antistorica convinzione che ciò che è passato possa ritornare nel presente, e nel futuro, allo stesso e identico modo.


L’esperienza di Vichy, invece, insegna che il passato non chiede di essere riproposto, semmai chiede solo di essere preso a modello e quindi riproporre il passato, agire da reazionari, significa solo utopizzare la realtà, quindi annullarla del tutto, e condurre il destino di un popolo verso il baratro.


Del resto, in presenza di un fallimento, la miglior soluzione è sempre il pragmatismo, quindi la capacità di analizzare la realtà per quella che è e andare avanti applicando delle soluzioni, ma andare avanti.


Il bisogno di progredire è troppo grande per poterlo svuotare sotto la falsa maschera delle “innovazioni reazionarie”, ma attenzione a non esagerare. Un equilibrio è più che necessario tra modernità e tradizione. Infatti, l’esempio stesso di Vichy, e della storia della democrazia in generale, espongono piuttosto bene questo concetto.


Antonio Bonasora

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