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La ballata di Donald Trump

Da due giorni non si fa che parlare d’altro, ed è proprio il caso di dirlo: l’attentato all’ex Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump è il tema che dominerà il dibattito pubblico nelle prossime settimane in Italia, mentre negli USA terrà banco fino alle elezioni del prossimo 5 novembre.


Durante un comizio di Trump a Butler, in Pennsylvania, alle ore 18:11 locali, dopo appena 5 minuti dall’inizio si sentono esplodere dei colpi d’arma da fuoco: si verrà a sapere solo dopo che il tiratore è il ventenne Thomas Matthew Crooks, appostato sul tetto di un edificio a circa 120 metri di distanza dall’ex Presidente.


Di Crooks, colpito a morte dalle forze del Secret Service, si sanno poche cose certe: secondo le ricostruzioni dell’FBI, Crooks era originario di Bethel Park, sempre in Pennsylvania; aveva acquistato i proiettili poche ore prima dell’attentato e si era recentemente registrato come elettore repubblicano, anche se in passato aveva preso parte al finanziamento di ActBlue, un comitato che raccoglie fondi per i Democratici


Alla fine di questa faccenda, a rimetterci la vita sono stati solo lo stesso Crooks e un’altra persona innocente, che vale la pena menzionare, un po’ per l’eroicità del suo sacrificio, un po’ per il fatto che l’uomo in questione aveva origini italiane: Corey Comperatore, il cinquantenne, ex capo dei Vigili del Fuoco, ha eroicamente difeso la sua famiglia coprendola e proteggendoli dalle pallottole del folle Crooks.


Non è di sicuro la prima volta che accade una cosa come questa, anche Gerald Ford, negli anni ’70, è stato vittima di due attentati nel giro di due settimane, e pure Ronald Reagan nel 1981. Altri quattro presidenti americani, invece, non hanno avuto la stessa fortuna del tycoon: parlo di Abraham Lincoln (1865), James Garfield (1881), William McKinley (1901) e John Fitzgerald Kennedy (1963).


Sappiamo infine che il Presidente Biden ha intrattenuto una telefonata, “breve ma piacevole”, con Trump, durante la quale il Presidente si è detto “sinceramente grato che (Trump) stia bene e si stia riprendendo”. Biden ha poi condannato l’attentato, dicendo che “un tentativo di assassinio è contrario a tutto quello che noi sosteniamo”, che “questo è il momento dell’unità” e che “in America non c’è posto per alcun tipo di violenza”.


Alcune teorie – a mio avviso davvero strampalate – vorrebbero che questo tentato omicidio fosse stato architettato dallo stesso Trump, ma anche soltanto guardare la distanza di millimetri tra la tempia di Trump e il proiettile che gli ha trapassato l’orecchio destro dovrebbe darci la misura dell’autenticità di questo attentato. Cavallo di battaglia di chi sostiene la teoria dell’attentato pianificato dall’ex Presidente è la mitica foto andata virale, e che in questi giorni ha coperto le prime pagine di centinaia di giornali in tutto il mondo: dopo essersi abbassato con gli agenti del Secret Service per ripararsi, una volta venuta meno la minaccia, ecco  riemergere Trump col pugno destro alzato, tra le braccia degli agenti che cercano ancora di tenerlo giù, ferito e fiero come non mai, con il viso coperto di sangue e una bandiera americana e i suoi sostenitori alle spalle, il tutto ovviamente a favor di camera.


C’è da dire che in questi eventi è normale che ci siano numerosi fotografi posizionati un po’ dappertutto, è normale che ci siano supporter alle spalle e ai lati del proprio leader, e che la bandiera americana si trovava lì già da prima, ma tant’è. Del resto, se bastasse un pezzo di orecchio ferito per essere eletti, saremmo circondati da Presidenti sordi.


Sono in molti a sostenere che, dopo questi fatti, Trump abbia già la vittoria in pugno, ma io non la penso così. O meglio, come in tutte le questioni politiche, bisogna pesare per bene ogni parola e valutare sempre a mente fredda: a mio avviso è ancora presto per dire cosa accadrà, e non è per nulla detto che un candidato che subisca un attentato sia destinato a vincere (proprio come il caso di Ford citato sopra).


Trump era in vantaggio, già prima del famoso dibattito del 27 giugno scorso, e dopo le cose non hanno fatto che peggiorare per Biden. Inoltre, Trump è dato da mesi in vantaggio in tutti i cosiddetti Swing States, ovvero quegli Stati in bilico da cui dipende l’elezione dell’uno o dell’altro candidato.


La cosa più problematica per Biden sarà gestire questo spettacolare fermo immagine: da una parte un candidato che fa letteralmente fatica a camminare, che cade dalle scale e dalle bici, che dà la mano ad amici immaginari, che legge “pausa” sui suoi foglietti durante i discorsi pubblici e dall’altra questa dimostrazione istintiva di vitalità che Trump ha dato, non affatto scontata, nel momento in cui era già stato ferito.


Per Biden, una notizia così grossa che resetta la discussione e la sposta su un altro terreno potrebbe anche essere, paradossalmente, una nota positiva: fino a prima dell’attentato, era stato il dibattito del 27 giugno il grande colpo di scena che aveva cambiato tutto, poi, appunto, è avvenuto l’attentato. Il risultato? Si parla molto di meno del ritiro di Biden. Le pressioni giornaliere del folto gruppo di Democratici (tra cui anche l’ex Presidente Obama) che invocavano il ritiro di Biden dalla corsa alla Casa Bianca si sono congelate, ma solo per il momento.


Ritornando alla telefonata con Trump e alle parole che ha proferito davanti alla Nazione: in linea di principio le affermazioni di Biden sono universalmente condivisibili, peccato però che siano destinate a restare su un piano puramente ideale: ormai da anni in Occidente – e negli Stati Uniti in primis – la polarizzazione del dibattito politico tende ad aumentare sempre più e i picchi di questo fenomeno sono proprio eventi di questo tipo. Sicuramente chiamare più volte il proprio avversario “criminale” o “corrotto” non aiuta, e non facilita la nascita di un vero dibattito fondato principalmente sulle idee dei candidati.


Questa continua criminalizzazione dell’avversario non è salutare per una democrazia, è come se ci fosse all’opera una continua pars destruens senza alcuna pars construens, è l’assenza totale di proposte e contro-proposte perché tanto basta insultarsi. Una continua tifoseria forsennata, che crede (solo per simpatia) che il proprio candidato sia il migliore di tutti e che l’altro non debba neanche avere il diritto di parola.


Ultimissimo elemento di tutta questa faccenda è l’inizio della Convention repubblicana a Milwaukee nella giornata di ieri, in cui si è cominciato con un momento di silenzio per le vittime e i feriti dell’attentato. Dopo alcuni interventi da parte di big del Partito Repubblicano, tra cui lo speaker della Camera dei Rappresentanti, Mike Johnson, e Glenn Youngkin, Governatore della Virginia, è arrivata la notizia: il candidato Vice-Presidente in ticket con Trump sarà James David Vance, Senatore in carica dal 2023 per lo Stato dell’Ohio, salito alla ribalta negli ultimi anni a seguito della pubblicazione di un suo libro autobiografico, Elegia americana (in originale Hillbilly Elegy). Alla sua uscita, il libro divenne un caso nazionale e raggiunse presto i primi posti in moltissime classifiche, e Vance venne invitato nei più importanti talk show. Vi ricorda qualcosa?


Da oggi in poi vedremo come l’innesto di questo nuovo protagonista del Partito Repubblicano influirà nella corsa alla Casa Bianca, ma rimangono ancora molti interrogativi, primo fra tutti il futuro di Joe Biden.


In un mare di incertezze, adesso l’unica cosa sicura è che da qui a novembre ci saranno altre notizie di questa portata, che ci faranno continuare a dire “e adesso che succede?”.

Alessandro Scimè

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