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Libertà di scelta e masse

Spesso ci chiediamo se conferire il potere di votare nelle mani del popolo sia una cosa giusta, o quanto meno giustificabile. Tenendo fede all’ormai radicato detto per il quale l’erba del vicino è sempre più verde, vediamo in paesi stranieri dei formidabili esempi di pragmatismo governativo di stampo quasi machiavellico, dove il fine (il buon governo) giustifica, anche se non per tutti, i mezzi (repressione della volontà popolare). Ma è davvero così? È necessario reprimere quella che i romani avrebbero definito l’actio popularis per garantire la stabilità dello Stato?


I diversi approcci alla massa


Una risposta univoca non è facile, se non addirittura impossibile, ma ci aiutano a determinare delle linee guida i classici del passato, dai quali sostanzialmente possiamo trarre due approcci differenti e opposti nei confronti della massa; c’è chi la ripudia, considerandola manifestazione dei più bassi istinti dell’uomo, e chi la asseconda, vedendo invece in essa la chiave per la ricostituzione di un ordine mancante da molto tempo, uno Stato idilliaco in grado di fare il bene della comunità e non di una ristretta cerchia di individui.

Del primo approccio è sostenitore il filosofo dei filosofi Platone, che nella sua Repubblica [1] vuole delineare una città ideale in cui il Bene supremo della comunità è compiuto dagli unici detentori della verità, quei pochissimi individui che si sono elevati sopra i bisogni elementari dell’uomo, ovvero i filosofi, in concordia con la temperanza delle altre due classi sociali, che devono, al fine del buon funzionamento della città, riconoscere il primato della razionalità filosofica sugli appetiti e le passioni che contraddistinguono le fasce più basse della popolazione.


Nel secondo caso l’esempio migliore è rappresentato dal vituperato Karl Marx, che basa il suo pensiero su una tanto auspicabile quanto utopistica presa di coscienza da parte delle masse di proletari, che di conseguenza sarebbero in grado di comprendere il loro indice di sfruttamento e sovvertire l’ordine costituito.


L’affidabilità delle masse


Il punto dunque è chiedersi chi avesse avuto ragione. Alla luce di ciò che millenni di storia umana ci hanno insegnato cosa possiamo dedurre? Certamente che la massa non è affidabile. Si tratta di un ente unico e volubile che, come fa notare giustamente Platone, è mosso da interessi di tipo appetitivo e non razionale (a differenza dei filosofi) e non ha i mezzi per determinare e di conseguenza attuare il Bene comune; per dirlo con le parole di Winston Churchill, celeberrimo primo ministro britannico, «Il migliore argomento contro la democrazia è una conversazione di cinque minuti con l'elettore medio» .


Søren Kierkegaard invece in Timore e tremore [2] riteneva che non si potesse essere uomini giusti davanti a Dio e membri della massa allo stesso tempo, giacché per lui la massa è l’opposto della verità, motivo per cui Abramo aveva abbandonato l’etica e la politica per intraprendere un rapporto assoluto con Dio. Il filosofo austriaco Martin Buber, partendo da questa tesi, nella sua opera Il principio dialogico e altri saggi [3] la scompone, ritenendo la massa non tanto il contrario della verità, quanto della libertà, poiché nella massa gli uomini cessano di pensare autonomamente, smettono di prendersi responsabilità e si fondono in un’unica entità che omologa tutti con un solo pensiero e una sola finalità.


Il governo dei molti e dei pochi


Lo storico greco Polibio ci aveva già parlato nelle sue Storie [4] delle degenerazioni alle quali ogni forma di governo può andare in contro, presentandoci dunque questa sua “teoria delle costituzioni” come un sistema ciclico, dove si parte da un apparato monarchico per finire, mediante rivolte, sommosse e dure prese di comando, all’oclocrazia. Polibio infine, con quella che potremmo definire come una sorta di “sintesi hegeliana” afferma che la miglior forma di governo risiede nella costituzione mista, quella cioè di Roma, dove la monarchia (l’imperatore), l’aristocrazia (il senato) e la democrazia (il foro) cooperano tra loro per cercare un’intesa.


Rimanendo sempre in ambito greco, anche Erodoto e Aristotele si esprimono in quella che è una filosofia politica ante litteram, seppur con visioni diverse; Erodoto, oppresso con la sua famiglia sin da piccolo dal tiranno di Alicarnasso Ligdami II, nel libro III delle Storie [5], in quello noto come discorso tripolitico (logos tripolitikòs) conferisce il primato della miglior forma di governo alla democrazia. Aristotele dal canto suo, nella Politica [6] preferisce egli stesso la “classe media”, notando che negli stati dove questa è la più numerosa raramente avvengano sedizioni o lotte per il potere. In ultima istanza, il poeta Teognide si dedica, nonostante la sua estrazione aristocratica, a un elogio della classe media, attraverso la metafora (poi ripresa da Alceo ed Orazio) di una barca (che rappresenta la città) in preda ai flutti del mare (i disordini civili e sociali) e il bisogno che questa abbia di un capitano (la classe media) in grado di guidarla nelle avversità.


Inoltre, come sarà secoli dopo per Platone, anche per Teognide il buon governo della città risiede nella mancanza di ambizioni da parte di coloro che sono incapaci di governare. Spostandoci nel millennio medievale, caratterizzato dalle sue violente guerre e rappresaglie, troviamo in primis il “sovversivo” vescovo inglese Giovanni di Salisbury, che in quella che fu la prima opera di filosofia politica del medioevo, il Polycraticus, afferma che il sovrano deve comportarsi mantenendo una moralità ineccepibile, attenendosi al principio detto “dell’equità”. Se così non fa, la massa popolare è autorizzata al tirannicidio.


Un paio di secoli dopo abbiamo invece a che fare con Tommaso d’Aquino, famigerato teologo e filosofo italiano, noto non principalmente per le sue visioni politiche, ma comunque autore di un piccolo trattato sul buon governo indirizzato al re di Cipro, Il governo dei prìncipi. Nell’articolare la sua tesi, Tommaso si rifà alla Politica di Aristotele, ritenendo che l’uomo sia naturalmente portato alla vita associata e alla soddisfazione dei propri bisogni fondamentali. La legge umana deve accordarsi alla legge naturale e soprattutto a quella divina. Tuttavia, divergendo da Aristotele, ritiene che nel tempo ci siano state delle sperequazioni, a seguito delle inadempienze dei monarchi che non hanno seguito le leggi universali ma hanno pensato ai loro interessi. Per riportare la situazione allo stato originale, quello della legge naturale in cui ognuno provvede alla sua sussistenza, è necessario che chi non ha niente sottragga beni a chi ne ha troppi.


Conclusioni: la democrazia è un bene o un male?


La risposta a questo dubbio rimane difficile, anche dopo i notevoli riferimenti alla cultura letteraria più o meno recente. Soprattutto, c’è il rischio di rimanere asserviti ad una partitocrazia becera, che si dà battaglia su ogni tema, persino quelli privati. Dobbiamo tenere presente il nostro passato e la nostra tradizione (in fin dei conti siamo noi occidentali i latori della democrazia, seppur con forme e modi differenti nel tempo) senza tuttavia rimanere ancorati ad un atavismo burocratico e istituzionale che nuocerebbe altrimenti agli interessi della comunità; la democrazia è necessaria e liberale, latrice dei bisogni e delle volontà del popolo nella sua interezza, non solo delle fasce più o meno agiate. Come tale però richiede partecipazione attiva alla vita comunitaria, uno slancio politico intelligente e consapevole quasi di stampo platonico, in aperta contrapposizione con il “vivi nascostamente” di Epicuro, ma in fin dei conti comune a tutti gli ellenistici.


Senza partecipazione lo Stato risulta solo una marmaglia di burocrati e banchieri senza scrupoli, come già ci aveva fatto notare Agostino nella vicenda di Alessandro Magno e del pirata nella Città di Dio [7] una comitiva despotica, priva di significato, senza la benché minima forma di comprensione verso il prossimo, aiutata tra l’altro dall’impunità di cui godono gli stati a differenza dei criminali comuni. Senza scadere in un elogio dello Stato etico hegeliano, limitiamoci a portare avanti l’idea di una nazione che tenga conto di tutti, senza fare concessioni o ricatti. Un organismo autorevole in grado di saper soppesare le varie vicende né con eccessivo calore umano, né con la fredda e schietta razionalità della legge universale.


[1] Platone, La Repubblica, a cura di G. Lozza, Mondadori, Milano, 1990.

[2] Søren Kierkegaard, Timore e tremore, trad. F. Fortini e K. M. Guldbrandsen, postfazione di J. Wahl, Edizioni di Comunità, Milano, 1948.

[3] Martin Buber, Il principio dialogico e altri saggi, a cura di A. Poma e A. M. Pastore, San Paolo Edizioni, 2011.

[4] Polibio, Storie, trad. G. B. Cardona, 2 voll., Collana Biblioteca Storica, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1948-49.

[5] Erodoto, Le Storie, a cura di A. I. d'Accinni, Sansoni, Firenze, 1951; n. ed. a cura di D. Fausti, Introduzione di F. Cassola, BUR, Milano, 1984.

[6] Aristotele, Politica, A cura di F. Ferri, Collana Testi a fronte, Bompiani, Milano, 2016.

[7]Agostin0, La città di Dio, a cura di Domenico Marafioti, Collana Oscar Classici, Mondadori, Milano, 2011.


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