Sacro è che in questo mondo
sia esistita mia madre.
[Franco Arminio, Sacro Minore]
È notte.
Sento un bimbo piangere nel buio. Chiamare la mamma. Lo immagino solo, in preda alla fame.
Il pianto si leva inconsolabile.
È preghiera, è labile poesia.
Nel buio, il pianto del neonato è voce di tutta la terra.
Utero in affitto, maternità surrogata o gestazione per altri, non basta cambiare nome ad una cosa per mutarne anche la sostanza.
Era solo questione di tempo, mi viene da pensare, prima che anche questa idea, la più disumana delle idee venisse trasformata in qualcosa di accettabile.
Del resto, sono anni ormai che navighiamo in questo mare senza più curarci dei limiti, delle colonne d’Ercole, avvolte in un banco di nebbia, fitta e impenetrabile, illudendoci di averle abbattute.
Mi chiedo che mondo sia quello in cui è medievale e bigotto colui che riconosce il sacro nel quotidiano.
E mi chiedo, a volte, di quale civiltà sia espressione l’utero in affitto. Perché fatico a credere che lo sia della nostra.
Sono anni che è in atto un processo di liberalizzazione costante, che riguarda e che investe violenta ogni aspetto della vita.
Droghe leggere, prostituzione, eutanasia, tutto può e deve essere concesso.
Le colonne d’Ercole sono un lontano ricordo.
Liberalizzazione significa, da un lato, rendere accettate, libere, normali pratiche e costumi che un tempo ritenute deplorevoli e svilenti, dall’altro lato dare un prezzo, rendere le stesse pratiche oggetto di scambio, di libera compravendita.
E arriveremo al punto che nulla sarà fuori dal mercato. Neppure i nostri corpi.
Avere figli oggi non ha senso, ci dicono. Siamo in troppi su questa terra. Le donne non sono fatte per essere madri.
Eppure, comprare un figlio è diventato un diritto legittimo.
Questa dicotomia paralizza il pensiero, ostruisce il dibattito politico.
È ironico, e crudele, che nell’anno in cui in Italia si registrano i minimi storici di natalità, l’unica maternità di cui si sente parlare sia quella surrogata.
In fondo, della maternità, del calo demografico, dell’idea stessa di famiglia e di essere genitori non importa. E ci si può occupare dei figli solo in termini di diritti, come qualcosa da acquistare. Altro il nostro contemporaneo non è in grado di dire.
Comprare un bambino, pagare per una gravidanza è feroce, dissacrante.
È feroce perché pone l’ego, dei singoli o delle coppie che scelgono la gestazione per altri, in una posizione di potere, di estrema forza contro quella in primis della donna, la madre surrogata, e soprattutto del bambino nascituro; quest’ultimo verrà strappato dal ventre materno, trasportato in un paese lontano.
Mi viene da chiedermi se il bambino in questione sentirà mai la necessità di sapere da dove viene, quali sono le sue radici, che sangue è quello che gli scorre nelle vene e la coscienza delle proprie origini è ancora importante per la nostra cultura.
«Un paese ci vuole» scriveva Pavese, perché paese vuol dire non essere soli, sapere di appartenere a qualcosa, a qualcuno. La maternità, il legame naturale che unisce la madre al figlio è, in questo senso, il primo e più istintivo modo con cui un essere umano appartiene all’altro.
Nel periodo storico in cui tutto ciò che ci unisce agli altri deve essere abolito e dimenticato, poiché è solo un inutile ostacolo alla libertà individuale, un figlio fa paura.
Da qui, da questa visione distorta del progresso come la dissoluzione di qualsiasi tipo di relazione affettiva o biologica tra esseri umani, che nasce e si sviluppa l’esigenza di rendere normale e accettata la pratica dell’utero in affitto.
Commercializzare il legame madre e figlio è l’unica via che rimane all’Occidente per affrontare la natalità.
Non riusciamo più a vedere una bellezza così sacra e al tempo stesso così terrena nell’atto di donare la vita, nell’immagine di una madre che stringe a sé il figlio neonato.
La gestazione per altri corrompe e dissacra il mistero racchiuso nel dare alla luce una nuova vita.
Non è il solo egoismo umano, che pure domina incontrastato e ci ha reso sempre più soli, sempre più incapaci di relazionarci con l’altro.
È l’idea alla base di quest’ultimo capitalismo di colmare e gestire ogni bisogno attraverso il consumo, attraverso l’acquisto.
E in questo senso volere un figlio è un bisogno come gli altri, come può essere quello di una nuova borsa o di un paio di scarpe, e perciò va trattato allo stesso modo.
Cerchiamo di perpetuare le strutture sociali fondanti del mondo che conosciamo, seppure disprezzate, surrogandole per l’appunto: l’utero in affitto è la risposta del mercato all’esigenza umana di avere una famiglia, di non essere soli al mondo.
L’utero in affitto, l’idea di comprare un bambino, sono il grottesco modo che la modernità offre per affrontare la paura della solitudine. È meglio pagare, ricorrere al denaro piuttosto che guardare negli occhi il mostro che la nostra società si cova dentro: una solitudine, profonda e avvilente.
Forse è per questo motivo che il pianto dei bambini mi colpisce sempre con forza: è il modo più immediato e semplice per richiamare a sé la madre. E in fondo, non è altro che un modo per chiedere di non essere lasciato solo ad affrontare la vita.
Sento, cioè, nel pianto dei bambini l’espressione del più umano dei bisogni, l’anelito disperato e vivo di essere amati.
In questo senso, il pianto del neonato è voce di tutta la terra.
Bianca Marzocchi