top of page

Non gridate più, il senso del 25 aprile

«Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini. Sono questi che mi hanno svegliato.

Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci arresta e si ha pura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante.

Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso.

Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà.

Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato.

Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.»

Cesare Pavese, La casa in collina

Ogni guerra è una guerra civile, ogni caduto somiglia a chi resta.


Io, come tutti quelli della mia generazione, non so cos’è una guerra, non so cos’è una guerra civile.

L’ho studiata nei libri di scuola, ho letto i romanzi di chi quel periodo l’ha vissuto, ma non posso dire di sapere che cosa sia veramente una guerra, di più cosa sia una guerra civile.


Posso immaginarla come una ferita profonda, una lacerazione della pelle mai curata e lasciata a prendere aria.


Del resto, una ferita cicatrizzata in modo sano lascia dei segni, certo, ma dopo ottant’anni smette di provocare dolore.


Invece, dopo ottant’anni alla ricorrenza della Festa della Liberazione si riaprono le polemiche, come se noi, noi tutti, noi italiani, gli strascichi di questa guerra civile non li avessimo mai superati.


Sono passati ottant’anni dalla fine di una guerra che forse non è mai finita davvero. Ottant’anni, una vita umana si frappone tra noi e quel periodo storico, tra noi e quegli avvenimenti.


Il mondo è cambiato, quel mondo in bianco e nero che ci resta dalle fotografie, quei volti, così puliti, non esistono più, sono stati inghiottiti dal tempo, supremo scolorar del sembiante.


Il nostro mondo, sebbene possa vantare una palette completa di colori, ha ancora bisogno di quelle fotografie per trovare la sua forma, per affermare la propria esistenza.


Ottant’anni da quel 25 aprile, ottant’anni che lo spettro del Fascismo si aggira per l’Italia.


Di fatti, Scurati ha ragione: lo spettro del Fascismo aleggia sul nostro Paese, tuttavia la colpa non è di Giorgia Meloni e della sua classe dirigente post-fascista.


Se ogni 25 aprile l’Italia si spacca, se riviviamo in altri termini la stessa lacerazione di ottant’anni fa è chiaro che c’è un problema.


Il nocciolo della questione, tuttavia, non è, come lo stuolo di illustri pensatori di sinistra sostiene, ottenere da parte del governo una dichiarazione di antifascismo.

Risolverebbe qualcosa? Io credo di no.


In primis perché “antifascista” non è sinonimo di “democratico”, significa semplicemente aderire ad un determinato sistema di valori, i valori di chi divide il mondo con l’accetta in buoni e cattivi, di chi preferisce semplificare una realtà complessa fino a ridurla alla sua caricatura maccartista.


In secondo luogo, non sarà una dichiarazione di antifascismo a guarire una delle più profonde ferite storiche del Paese, non è possibile.


Non sarà mai possibile finché non si supererà questa dicotomia tra buoni e cattivi, che ogni anno si ripropone immutata, finché non si abbasseranno le lance di uno scontro anacronistico, si deporranno a terra gli scudi.


Gridare di volta in volta più forte che il 25 aprile è festa nazionale, non la renderà festa per tutti. A maggior ragione se il modo di raccontare questa festa è ancora quello di Scurati.


E vorrei dire a Scurati e compagni di non gridare più.


Non gridate più, cessate di uccidere i morti. È stata già abbastanza violenta la storia.


Rinfocolare la tensione carsica sull’antifascismo è un gioco grottesco, oltreché inutile per il futuro e dannoso per il presente. Ultimo strumento di chi è capace solo di combattere nemici immaginari, di resistere contro il nulla.


Non gridate più, guardate invece lo squarcio che dilania la Nazione: insieme all’Italia antifascista, c’è stata un’Italia fascista, c’è stata la guerra, la guerra civile.


E per un momento non guardate questa ferita con occhi politici, le conclusioni politiche sulla guerra e sul Fascismo le lasciamo agli storici. Diverse ne hanno tratte e ancora ne trarranno.


Guardiamo la ferita con occhi umani, con gli occhi di Cesare Pavese. Allora forse non grideremo più per davvero.


Nelle parole con cui lo scrittore piemontese chiude il romanzo La casa in collina è racchiuso tutto quello che dovrebbe essere il senso del 25 aprile, almeno adesso. Sono parole potenti, travolgono il lettore, lo scuotono in quanto essere umano.


Se contrapposti ai triti discorsi retorici sulla Liberazione queste sono parole esplosive, universali, bellissime eppure spoglie di orpelli. Ciascuna di loro porta la forza di una verità umana, profondissima, che trascende la vicenda storica e diviene un monito eterno. Una verità intrinseca all’essere umano stesso: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione.


Dare una ragione a questi morti, spiegare perché sono morti, è la strada per la pacificazione della memoria.

Il fulcro della questione, in fondo, è tutto qui: superare le inutili polemiche e andare avanti attraverso lo sforzo di riconoscere se stessi negli occhi dell’altro essere umano, scorgere in ciò che è altro da noi gli stessi segni di dolore, le stesse frustate lasciate dalla vita, la profonda sofferenza inflitta dalla guerra. Solo così lo spirito del Fascismo che ancora aleggia intorno a noi, scomparirà.


Solo così avremo pace. E forse nell’epoca in cui ogni argomento viene polarizzato, in cui, sebbene a parole, combattiamo all’ultimo sangue anche per la cosa più futile, in cui le guerre tornano bussare ai nostri confini, e noi pretendiamo di affrontarle come fossero partite di calcio, può essere utile ricordare che l’umanità prevale sulla tessera di un partito, prevale sulle convinzioni, sui pensieri, prevale perfino sull’ideologia.


Bianca Marzocchi

bottom of page