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Paolo Borsellino: il giudice eroe, la storia e la fiaccolata

«È bello morire per ciò in cui si crede; chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola»

La vita:


Paolo Borsellino nacque a Palermo il 19 gennaio 1940, figlio di Diego e di Maria Pia Lepanto. Cresce nel quartiere Kalsa, nel centro storico di Palermo, fa subito amicizia con un ragazzino più grande di lui di soli 8 mesi, Giovanni Falcone. Dopo aver frequentato il liceo classico Giovanni Meli, nel 1958 si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza all’Università degli Studi di Palermo, e nell’anno successivo si impegnò nel Fronte Universitario d’Azione Nazionale, per il quale fu eletto rappresentante studentesco. Si laureò nel 1962 con 110 e lode, ma i festeggiamenti durarono poco: pochi giorni dopo venne a mancare il padre. Rimasto l’unica fonte di sostentamento della famiglia, mantenne attiva la farmacia del padre con l’ordine dei farmacisti, fino al 1967, anno in cui la sorella Rita si laureò in Farmacia. Nel 1963 vince un concorso per entrare in magistratura: è il più giovane magistrato d’Italia. Negli anni Sessanta lavorerà prima ad Enna, poi a Mazara del Vallo e infine a Monreale. Nel 1968 si sposò con Agnese Piraino Leto, dalla quale avrà tre figli: Lucia, Manfredi e Fiammetta.


Dal 1975, cominciò a lavorare presso l’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo occupandosi dei clan mafiosi della città. Qui instaurò un saldo rapporto umano e professionale con il giudice Rocco Chinnici, con il quale stava sperimentando l’efficacia di una specializzazione degli inquirenti nella lotta alla criminalità organizzata. Dopo l’omicidio di Chinnici nel 1983, a capo dell’Ufficio è nominato Antonino Caponnetto: questi, comprendendo le potenzialità del coordinamento delle indagini e dello scambio di informazioni tra magistrati addetti, crea il pool antimafia, di cui fanno parte – oltre a Caponnetto stesso e Borsellino – anche Leonardo Guarnotta, Giuseppe Di Lello e Giovanni Falcone. Grazie a questa iniziativa e al generale miglioramento delle capacità investigative anche sotto il profilo degli accertamenti bancari e patrimoniali, il pool ordinò numerose misure di custodia (tra cui quella nei confronti di Vito Ciancimino) iniziando a ricevere le prime dichiarazioni di collaboratori di giustizia come Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno, successivamente essenziali per l’istruzione del famoso maxiprocesso.


Nel 1985 Falcone e Borsellino furono ospitati nella foresteria del carcere dell’Asinara per la redazione degli atti necessari alla preparazione del maxiprocesso che si concluderà nel 1987 con 346 condanne (di cui 19 ergastoli, per un totale di 2665 anni di carcere e 11,5 miliardi di lire di multe) infliggendo un durissimo colpo a Cosa nostra. Nel dicembre 1986, Paolo Borsellino fu nominato Procuratore della Repubblica di Marsala: in questo periodo si occuperà soprattutto di indagare sui casi della Strage di Ustica e del Mostro di Marsala. Nel 1992, dopo il congedo di Caponnetto dall’Ufficio istruzione per motivi di salute e il trasferimento di Falcone a Roma quale Direttore degli Affari penali del Ministero di Grazia e Giustizia, ritornò al Tribunale di Palermo come Procuratore aggiunto per coordinare l’attività distrettuale antimafia. La strage di Capaci del 23 maggio dove perse la vita l’amico e collega Giovanni Falcone causò in lui una profonda sofferenza. Il pomeriggio del 19 luglio 1992, Paolo Borsellino era diretto verso la casa della madre dopo aver pranzato con la famiglia a Villagrazia. Un’auto carica di tritolo parcheggiata in via D’Amelio veniva fatta esplodere cagionando la morte del magistrato e dei cinque agenti della scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina.


Le ultime ore del giudice:


Delle ultime ore di Paolo Borsellino si conoscono soprattutto le telefonate e gli spostamenti, grazie ai tabulati telefonici ed alle testimonianze di parenti e amici. Alle 5 del mattino di domenica 19 luglio riceve una telefonata da Fiammetta, sua figlia, che si trovava in Indonesia insieme ad un amico del padre, Alfio. Dopo la telefonata, durata pochi minuti, il giudice si mette a scrivere una lettera di risposta ad una professoressa di Padova, che lo aveva invitato a parlare nella sua scuola davanti agli studenti. Borsellino però non aveva mai ricevuto un invito. Ricostruisce i fatti: a gennaio dello stesso anno aveva dato la sua disponibilità in linea di massima per l’iniziativa, e la persona che lo aveva informato gli aveva assicurato che sarebbe stato contattato dal preside, ma da allora non aveva sentito più nessuno. In seguito riceve un’altra telefonata, questa volta dal procuratore Pietro Giammanco, che gli chiede scusa per l’orario e arriva subito al dunque: vuole affidargli l’interrogatorio del pentito Gaspare Mutolo. Borsellino lo ringrazia e torna a scrivere la lettera di risposta.


Dopo un po’ si accorge di essere osservato: è la figlia Lucia. Appena la vede, le chiede se vuole accompagnarlo a Villagrazia – dove i Borsellino hanno una casa al mare – aggiungendo che dopo potrebbero andare insieme a prendere la nonna, che deve andare a fare una visita dal cardiologo. La figlia le risponde che non può, ma i piani del giudice non cambiano, ci andrà lo stesso con sua moglie. Qualche ora dopo, appena arrivato a Villagrazia, incontra subito il vicino di casa ed amico Vincenzo Barone, che gli propone di fare un giro in barca. Borsellino accetta e i due vanno al largo, e una volta fattasi l’ora di pranzo decidono di mangiare insieme ad altri amici. Una delle abitudini del giudice era fare un riposino dopo aver pranzato, ma quel giorno non chiuse occhio: lo testimoniano i mozziconi di sigaretta nel portacenere ritrovati qualche ora dopo. Verso le 16:30 raggiunge gli amici in giardino e si dirige verso la sua Croma blu, con la voglia di guidare nella strada del ritorno a Palermo.


Chiede ai poliziotti di salire sulle altre due auto, dopodiché appoggia la borsa con i documenti – dentro la quale c’è anche la sua preziosa agenda rossa, su cui scrive gli appuntamenti e le annotazioni più riservate – sul sedile posteriore della Croma. Saluta il figlio Manfredi e l’amico Vincenzo Barone e sale sull’auto. Mette in moto e lascia passare davanti la prima macchina della scorta, poi comincia a muoversi. Dietro di lui, la seconda auto della scorta. Si avvicina sempre più in via d’Amelio, dove la madre abita in un palazzo in una strada chiusa da un muro che recinta un cantiere edile. Una volta arrivato, apre lo sportello e si dirige verso il numero civico 19. Antonino Vullo, agente della scorta, parcheggia la prima Croma di traverso, come gli è stato insegnato. Gli altri cinque agenti, tra cui Emanuela Loi – la prima donna a far parte di una scorta – seguono il giudice. È tutto tranquillo, nessuno nota quella Fiat 126 rossa che sta lì parcheggiata da due giorni. Non dovrebbe attirare più di tanto l’attenzione, perché il parcheggio non è stato vietato, segno che quello non è stato ritenuto un punto strategico per fare del male al giudice. E invece, dentro al bagagliaio di quella macchina ci sono ben novanta chilogrammi di tritolo e pentrite collegati, grazie ad una piccola antenna presente all’interno della vettura, a un telecomando che in quel momento è nelle mani di un mafioso, il quale si trova in un terreno in fondo alla strada, nascosto da un muro. Il giudice è appena arrivato davanti al citofono.


Qualche ora prima, Borsellino aveva telefonato alla madre per dirle che sarebbe andato a prenderla per portarla dal cardiologo, ma non poteva sapere che ad ascoltare la telefonata ci fosse un uomo di Cosa Nostra: è lui ad avvertire gli altri di mettersi in posizione. A pochi metri di distanza dall’edificio c’è un palazzo in costruzione, luogo perfetto per nascondersi e aspettare. Non appena lo vedono avvicinarsi al citofono, i mafiosi danno l’ordine al boia con il telecomando, che preme il pulsante un attimo prima che il giudice suoni al citofono. L’esplosione è fortissima: le auto parcheggiate saltano in aria, un pezzo del motore della Fiat 126 viene ritrovato a decine di metri di distanza, una pioggia di vetri cade sull’asfalto. L’unico a salvarsi sarà Antonio Vullo, rimasto all’interno dell’auto blindata. Il corpo del giudice giace carbonizzato, il braccio destro troncato di netto. Uno dei primi ad arrivare sul posto è il giudice Giuseppe Ayala, collaboratore di Borsellino, che abita lì a due passi. Seguono poi il ministro dell’Interno Nicola Mancino, accompagnato dal capo della polizia Vincenzo Parisi. Vengono accolti dagli agenti delle scorte, giunti per manifestare tutta la loro rabbia. C’è tensione, volano insulti e spintoni. La protesta si sposta poi davanti alla Questura, dove gli agenti si asserragliano negli uffici della mobile, che abbandonano soltanto durante una trattativa che dura tutta la notte.


Alessandro Scimè


In questo articolo, nato dal mio incontro con Alessandro a Palermo, ho provato in poche righe a trasmettervi la mia esperienza della fiaccolata in memoria di Paolo Borsellino e della sua scorta.

Palermo, 21 luglio 2023.


È il giorno della fiaccolata in memoria di Paolo Borsellino e della sua scorta.


Siamo partiti circa in 40 da Catania, tutti ragazzi di Azione Universitaria e Gioventù Nazionale. La città ci accoglie con un caldo torrido. Il tempo di una merenda e ci siamo ritrovati in Piazza Vittorio Veneto. Qui incontro Gabriele Brunetto (GN Agrigento), e Gero Drago (FdI Canicattì), con cui scambio diverse battute. Finalmente ritrovo i miei dirigenti, Alberto Cardillo e Luciano Zuccarello (FdI Catania) a cui sono legato da un rapporto di profonda stima, loro sono le locomotive della nostra comunità catanese. Ci scambiamo affettuosi saluti.


È il momento di dare il nostro apporto. Andrea Giulla (AU Catania) tira fuori lo striscione che abbiamo fatto preparare, siamo orgogliosi di fare sapere quanto la comunità catanese tenga a questo evento. Ci raccogliamo fieri dietro lo striscione per una foto di gruppo e poi ci accodiamo al corteo.


La piazza è in silenzio. Ognuno con cura accende la propria fiaccola. È un momento commovente. Quelle fiaccole rappresentano il fuoco della legalità, che mai si spegne e che noi continuiamo ad alimentare. Il ricordo delle parole di Paolo sono vive, ed hanno forgiato la nostra coscienza civile.


Ci mettiamo in marcia fino in via d'Amelio. Per la via mi fanno un paio di interviste. Mi chiedono cosa ne pensassi del rischio di un contro corteo. Ho risposto che non avrebbe avuto senso. Commemorare i caduti della lotta alla mafia è un dovere civile, e saremmo dovuti essere uniti nel ricordo.


Arrivati in via d'Amelio ci siamo stretti vicino al luogo della memoria dove era esposta la foto del magistrato. La folla canta l'inno nazionale.

È un momento toccante, si respira aria di legalità e amor patrio.


Il significato più importante di questa manifestazione, oltre al ricordo di cui accennavo poc' anzi è di ribadire un messaggio fondamentale all'opinione pubblica sul 41 Bis, che per noi rimane uno strumento penale fondamentale per la lotta alla criminalità organizzata.


PAOLO VIVE!

Kevin Guagenti


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