La costruzione dell’io nazionale tra crisi d’identità, ingerenze e lotte di potere in un paese nemico di sé stesso.
Retorica a parte, la società ucraina come spesso accade con le realtà di frontiera, ancor prima della recente crisi, appartiene nell’immaginario collettivo occidentale a un qualcosa di distante, arretrato e diviso culturalmente in due macro blocchi, tra loro in constante conflitto: l’Ovest progressista, intellettuale, dalla forte anima austro-ungarico-polacca e l’Est rurale, industriale, emotivamente legato alla Russia. Si tratta purtroppo di una grave semplificazione, figlia dell’arroganza europea.
Viene da domandarsi pertanto quali siano le origini di un popolo, desideroso di emanciparsi dal destino infausto di eterna minoranza, e come si possa definire l’etnia ucraina, essendo questa estremamente eterogenea e caratterizzata da processi evolutivi storici differenti, di incontro e scontro, migrazione, rimpasto e innesto forzato.
Quest’area rappresenta un unicum nel Continente, arricchita da quasi 100 etnie differenti e oltre 40 lingue minoritarie. Ancora oggi ci sono comunità estoni-svedesi nel villaggio di Zmiivka, trasferitesi dall’isola di Dagö nel 1721; oppure comunità greche, originarie del Ponto, le quali fondarono Mariupol dove si parla un dialetto codificato in cirillico, i cosacchi a Zaporižžja, i tatari in Crimea e poi armeni, tedeschi, polacchi, ungheresi, moldavi, gagauzi e georgiani. Molte di queste etnie, vivendo in zone di confine hanno cementato la propria identità etno-linguistica, altre si sono integrate e mescolate in maniera più fluida tra loro mentre altre ancora furono limitate nel loro sviluppo culturale per ragioni prettamente religiose.
Questa frammentazione culturale ha alimentato un retroterra di rancori e conflitti tra le varie specificità del territorio, per poi maturare in un rigurgito nei confronti delle differenti dominazioni, susseguitesi nel tempo. L’odio come collante per la costruzione del sé nazionale.
In particolare, con la Russia si aprì poi nell’Ottocento una frattura ideologica significativa. Tra il panslavismo russo, fondato sulla riunificazione slava, la missione messianica dell’Impero e il pensiero repubblicano ucraino. Il quale, infarcito della retorica degli ambienti liberaldemocratici e socialisti della Galizia asburgica (da Drahomanov a Taras Ševčenko), proponeva un nazionalismo civico, fondato sui diritti anziché sull’identità etnica e linguistica. Due filosofie inconciliabili destinate a frapporsi inevitabilmente, una costante spinta dal basso per l’autonomia e il contrappeso dall’alto per soffocarla.
Il bolscevismo poi ha il “merito” di averne annullato qualsiasi aspirazione nazionalista, avviando un traumatico processo di ingegneria demografica con effetti devastanti a livello sociale e culturale. Come la definisce la Prof.ssa Pachlovska dell’Università La Sapienza una «violenta russificazione e una deportazione o/e fuga di vasti strati di popolazione autoctona perseguitata». Una strategia di sostituzione, contenimento e assoggettazione che abbracciava tutte le realtà dello Stato dall’istruzione, alla stampa e all’amministrazione, stravolgendone completamente il tessuto sociale. Si stima che l’innesto di immigrati russi negli anni fu di oltre 7 milioni nelle regioni sud orientali. Arrivando a costituire il 16% dell’intera popolazione tra funzionari pubblici, dirigenti di partito e operai.
Nonostante l’indipendenza nel 1991, il Paese non ha mai superato le profonde contraddizioni causate dalla sua storia di traumi sociali. La classe dirigente, divisa tra il complesso di non ripetere gli errori del passato, scontentando le minoranze, e l’incapacità di scindere la realpolitik dall’idealpolitik, è rimasta immobile, senza mai realizzare concretamente la Nazione. In oltre trent’anni, ogni nuovo governo puntualmente corrotto era espressione dell’élite predominante in quel periodo e anziché costruire la pace e il benessere sociale, alternava simpatie occidentali a quelle filorusse in base alla convenienza, arricchendosi schifosamente mentre buona parte del Paese viveva in condizioni di miseria.
L’Ucraina tra l’altro non si sente europea (almeno non tutta) e considerarla tale è pura demagogia, date le profonde contaminazioni turco-tatare e il fil rouge interrotto con l’evoluzione europea nel 1240, la distruzione di Kiev. Se indaghiamo il contesto sociale delle sollevazioni popolari, dalla rivoluzione arancione del 2004 (frode elettorale) fino a piazza Maidan nel 2014 (il clamoroso dietrofront di Janukovyc sulla firma dell’accordo di associazione con l’Unione Europea) non furono per alcun sentimento europeista piuttosto il pretesto del popolo ucraino, stremato dalle condizioni di povertà diffuse, le politiche repressive, i diritti umani calpestati, per rovesciare l’ennesimo governo corrotto e porre fine agli affari sporchi del clan di Donetsk.
La componente principale della piazza era infatti la parte più occidentale del Paese, soprattutto da Kiev e Leopoli, perciò di madrelingua ucraina, con forti posizioni liberali che voleva uscire dalla sfera di influenza russa e guardava all’Europa solo come modello per cambiare le proprie condizioni di vita e non per motivi identitari. Tant’è che le bandiere europee scomparvero dopo i primi giorni. Pravyj Sektor che gestiva il servizio d’ordine ed era in prima fila durante gli scontri per giunta si opponeva categoricamente all’ingresso dell’Ucraina nell’UE. Emblematica l’intervista del Guardian di uno dei leader Tarasenko «L’ingresso nell’Unione Europea, per l’Ucraina, sarebbe la morte».
La strategia delle rivoluzioni colorate è un copione infatti ben noto del principio di guerra ibrida, di cui gli americani hanno fatto scuola per raggiungere i propri scopi politici e rimuovere personalità scomode (Iraq, Siria e Libia docent ma la lista è lunga). Il sostegno finanziario, logistico e strategico attraverso ONG e fondazioni private ai movimenti di protesta, la manipolazione dei media, veicolando il sospetto verso la minoranza russofona, rappresentano una forma di terrorismo psicologico talvolta più efficace e preferibile rispetto all’intervento militare diretto.
Peraltro, dopo la fuga di Janukoviyc, le proteste in Donbass erano espressione del disagio della popolazione locale minacciata dalla linea nazionalista, intransigente di Poroshenko; che in un discorso del dicembre 2014 disse, riferendosi alla comunità russofona «perché noi avremo lavoro e sussidi, loro no, i nostri figli andranno negli asili e nelle scuole, i loro vivranno nelle cantine perché non sanno fare niente». Ciò nonostante la comunità, non ha mai espresso l’interesse di un’annessione alla Russia, molti di loro si consideravano ucraini di lingua russa, a differenza della Crimea che invece non ha nascosto le proprie intenzioni.
È ingenuo pertanto ridurre la deflagrazione di una civiltà multiculturale in seno al nostro continente, solo come un conflitto etnico.
Semmai parte della responsabilità va ricercata nello scontro tra i diversi clan di oligarchi ucraini, in lotta per mantenere ciascuno il proprio potere. Rinat Achmetov di Donetsk, preoccupato infatti di perdere influenza politica ed economica sul Paese soffiò sul fuoco della sommossa, supportando i movimenti separatisti mentre affianco alle truppe ucraine Ihor Kolomoisky del clan di Dnipro, finanziava le unità paramilitari Azov, Dnipro, e Aidar per indebolire i suoi competitors e mantenere un governo filoccidentale.
Non c’è da sorprendersi se in un contesto così instabile la Russia ne abbia approfittato per i suoi obiettivi geopolitici, applicando la moderna dottrina militare, Voyna Novogo Pokoleniya, del Generale Gerasimov espressa nel volume Il valore della scienza nella previsione. È di dominio pubblico come i russi abbiamo sobillato, addestrato, armato i separatisti e attraverso reparti speciali del GRU e dell’FSB senza insegne e distintivi, guidato l’occupazione di municipi e istituzioni locali mentre alti ufficiali in congedo degli stessi servizi di intelligence comandavano i principali gruppi paramilitari, dalla Brigata Sparta di Anton “Motorola” Pavlov alla Brigata Slavjansk di Girkin, preparando il terreno per l’Operazione speciale del 24 febbraio 2022.
È davvero ipocrita cedere alla retorica dell’innocente aggredito dal lupo russo senza motivo perché se si tratta della NATO non è mai invasione ma peacekeeping. Per 9 anni ci siamo girati dall’altra parte davanti ai massacri, siamo responsabili anche noi dell’impoverimento di quell’area, per secoli abbiamo rubato loro terre e materie prime e da 400 anni sono abbandonati al loro destino perché non ci interessano davvero, sono un po’ come un parente lontano, hai poco in comune e speri di vederlo il meno possibile.
L’idea Ucraina è un sogno, un paradiso di tolleranza, diritti e pace ma resterà tale, un popolo dannato vittima di sé stesso e della storia.