Su agguati e regolamenti di conti in un partito in crisi d’identità e su di un uomo vittima del proprio nome
La Lega Nord, fino al 2012, è stato un laboratorio culturale straordinario, si aveva la sensazione che tutto fosse possibile; certo, i discorsi sull’indipendentismo e la secessione facevano rabbrividire e a Pontida anche io cercavo di defilarmi con discrezione quando cantavano Verdi al posto di Mameli.
Eppure, la loro weltanschauung, legata alla terra, alle tradizioni e alle lingue locali, era qualcosa di affascinante. Alla Padania, poi, ci credevano davvero, ricordo interminabili seminari e libri su fantasiose dietrologie riguardo le origini etniche dei padani. Molti di loro si consideravano oppressi come i baschi, i quali, tra l’altro, di indoeuropeo o celtico non hanno nulla, guai a chiunque provasse a sorridere davanti certi paragoni.
Chiamatela poi ironia della sorte o acrobazia ideologica, molti di loro sono diventati oggi alfieri dell’italianità. Qualcuno perde improvvisamente la memoria quando qualcun altro ricorda loro di essere quegli gli stessi che cantavano, alticci e sudati, Napoli colera e «Ca Camerun, meglio negro che terun», tra fragorose risate di gruppo. Fun fact, per gli apologeti della purezza etnica, solo noi italiani ci consideriamo bianchi, per il resto dell’umanità, al di fuori dei confini patrii, siamo scuri. Rassegnatevi.
Al contrario di quanto si potrebbe pensare, la classe dirigente storica del partito è cresciuta con una ricca formazione politica, tra le lezioni principali c’era lo sviluppo di una capacità di analisi profonda e introspettiva. Se per Berlusconi la cosa pubblica rappresentava un’estensione delle proprie aziende, per Bossi, invece, la cosa pubblica era guerra, studio e pensiero.
Ecco perché, durante le scuole politiche, si parlava soprattutto di comunicazione, psicologia e profondità strategica. Giusto per fare degli esempi. Con la camaleontica operazione di camouflage ideologico, pensata da Salvini, ovvero dal 2014 a oggi, la qualità dei quadri leghisti è passata volutamente in secondo piano per evitare concorrenti: egli stesso si ritrova ad avere fedelissimi privi di intelligenza politica.
Intelligenza politica che è, invece, caratteristica innata di alcuni; la personalità complessa di Umberto Bossi ne è un esempio: tradito dal fisico, conserva una mente lucidissima e non perde occasione per essere una spina nel fianco della leadership salviniana.
Ciò che è successo il sabato delle elezioni europee rivela un progetto politico molto articolato, Bossi non ha votato Forza Italia solo per umiliare Salvini (nonostante un pizzico di gusto sadico ci sia), che ha sempre considerato un ragazzotto un po’ scemo e piacione e di cui non ha mai mancato di ricordare i limiti, anche pubblicamente. Questo è anche un vezzo caratteristico del Bossi, stiamo parlando dello stesso che, alla domanda di un giornalista riguardo alla possibilità che il figlio Renzo divenisse il suo “delfino” politico, rispose, alludendo alle sue scarse capacità, «semmai una trota».
La prima mossa del piano è stata innanzitutto diffondere la notizia ai media, attraverso l’ambasciata del suo prode scudiero, Paolo Grimoldi, che avrebbe dato la sua preferenza a Marco Reguzzoni, e questo nome non è affatto casuale. Chi sbraita "alto tradimento", perché il fondatore della Lega ha votato Forza Italia, o ha scarsa memoria storica, oppure non capisce niente di politica. Non solo Reguzzoni, anni fa, era uno degli uomini di punta del cosiddetto “cerchio magico”, ovvero i pretoriani di Bossi (tutti epurati con la presa di potere di Salvini), ma rappresenta un sottobosco politico specifico, ovvero la Lega più settentrionalista.
Non a caso, Reguzzoni ha sostenuto la nascita del partito Grande Nord, di Bernardelli (noto imprenditore alberghiero dalle sfortunate avventure politiche), ed era spesso legato all’associazione culturale, di Varese, Terra Insubre, fucina di padanisti radicali, con simpatie per l’esoterismo e l’estrema destra.
Reguzzoni, liberale, nordista, radicato nel territorio e apprezzato dai militanti ortodossi e dagli imprenditori, era, insomma, uno dei più grandi ostacoli alla svolta nazionalista del partito e rappresentava una minaccia per la segreteria di Salvini. Inviso al nuovo cerchio magico (gli amici stretti di Matteo, affamati di potere), nella nuova Lega ebbe vita breve.
Tornando all’ultimo Bossi, l’obiettivo di questa sottile operazione di sabotaggio era scuotere la base autentica, insofferente per le posizioni meridionaliste e schiacciata dal ricatto morale di Salvini (il “maledetto” 34% ottenuto anni fa), per sovvertire la leadership e tornare alle origini.
Grimoldi si è immolato come martire, cosciente che diffondere questa notizia sarebbe stato un suicidio politico personale, soprattutto per lui, inviso a Salvini già dai tempi dei Giovani Padani e, più recentemente, per il ruolo, insieme a Ciocca, di coordinatore del Comitato Nord, la corrente interna bossiana nata 2 anni fa.
Eppure Bossi dovrebbe saperlo bene: in Lega non c’è spazio per le correnti e il peccato originale è suo. Prima che lasciasse la segreteria, i federalisti (militanti avversi alla secessione) costituivano de facto una corrente interna, non ufficiale, e, di certo, minacciavano la sua autorità preferendogli Maroni. Ma nessuno di loro ha mai avuto il coraggio di parlare di corrente, pena la defenestrazione dal partito. Se facciamo, infatti, un salto indietro di almeno 12 anni, l’autorità di Bossi era assoluta e indiscutibile, era idealizzato al limite della santificazione."
Per altro, era un capo polito in grado di sfoggiare ferocia e sangue freddo sia con i nemici che, soprattutto, con gli alleati. Dotato di un letale tempismo politico, quando colpire il suo nemico interno se non durante le elezioni? Esattamente quando tutti si aspettavano che si facesse quadrato, lì lui affondava il coltello.
Quella di Bossi è una lunga storia di colpi bassi, rovesciamenti, voltafaccia. Adora creare caos. Il Leone di Gemonio si è sempre mosso sinuosamente nell’ombra, pronto a colpire in un attimo.
Tutte queste recenti operazioni di sabotaggio e dissimulazione sono l’ultimo afflato di uomo vittima di sé stesso, divorato dal risentimento e dal rimpianto di aver perso la sua creatura politica. A causa dell’orgoglio, fatica a rendersi conto che il consenso di Salvini si regge veramente sulla base storica leghista, che è e sarà fedele al partito per sempre, a prescindere dal leader e nonostante le profonde emorragie di militanti.
Salvini, tra l’altro, ha sempre saputo farsi volere bene, con la parlantina e il sorriso pulito da bravo ragazzo. Ora, a meno che non faccia qualcosa di realmente grave e inaccettabile, come utilizzare illecitamente i fondi del partito per spese personali, la sua leadership non sarà messa in discussione e di certo, se dovesse succedere, non sarà per mano dei pretoriani del Leone come Grimoldi, ormai prossimo all’espulsione, o per mano di Ciocca, ormai ex parlamentare europeo.
Sospeso tra l’incudine e il martello, Salvini è consapevole che se fosse stato più spietato avrebbe perso tutta la base che sorregge la sua macchina elettorale; perché puoi tradire il Nord, ma il “Capo” non si tocca, e allora si è nascosto dietro l’alibi morale di un cavillo burocratico, per non affrontare la situazione. Bossi non é iscritto alla nuova Lega, pur essendo senatore con il partito stesso, e pertanto non può essere espulso.
State sicuri, questo non sarà l’ultimo morso del Leone, bossi ha ancora le forze per colpire e fare male ancora una volta, in attesa della fine.
Cesare Taddei