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Un elogio del padre. Riflessione su La strada, di Cormac McCarthy

Devo ammettere la mia ignoranza: prima di questa estate non conoscevo McCarthy, né tantomeno il suo romanzo più riuscito, La strada.


È stato un incontro tanto casuale quanto piacevole con una appassionata lettrice, profonda conoscitrice della letteratura italiana e non solo – come solo chi legge tanto può essere –, innamorata della lettura che ha descritto come “necessaria” in questi tempi così perigliosi, dopo averle confessato la mia predilezione per i romanzi distopici, ad avermi portato all’incontro con questo autore e questa storia.

La trama, in breve


La strada contiene, in effetti, tutti i caratteri propri del romanzo distopico [1]: un’ambientazione lugubre e inquietante, post-apocalittica; protagonisti sopravvissuti ad un avvenimento catastrofico, che devono lottare ogni giorno per vedere la luce di quello seguente, ciascuno solo col proprio destino tra le mani; un’alta tensione narrativa.


La trama è presto descritta: un padre e un figlio lottano per la sopravvivenza in un mondo ridotto in cenere da un avvenimento non precisato, affrontando quotidianamente la fame, il freddo, le bande di predoni che si aggirano per le strade cineree e desolate.


Naturalmente, però, come accade in ogni romanzo distopico, il messaggio che si intende trasmettere è sempre più profondo di quello che la narrazione potrebbe lasciar pensare.


Un elogio del padre


Il romanzo di McCarthy, infatti, non è tanto il racconto della fine del mondo, semmai il contrario: è il racconto di cosa significa essere padre in un mondo che di padri non ne ha più.


Gli incendi che hanno devastato il nuovo mondo in cui i protagonisti della storia vagano, infatti, hanno fatto letteralmente tutt’intorno a loro terra bruciata e sopravvivere è diventata una impresa immane, quasi priva di senso: tutto è ridotto “allo spettro avvizzito” di se stesso[2]. A più riprese, in modo esplicito o meno, il padre si domanda che senso abbia continuare a rincorrere gli scampoli di vita che la quotidianità lascia loro; ogni giorno di più, inoltre, egli avverte la morte dietro l’angolo, tormentato costantemente da una tosse che lo costringe a sputare, ad ogni sussulto, «catarro e sangue». Eppure, rimane lì: è questo in prima battuta che fa un padre, restare al proprio posto anche quando tutta l’esistenza suggerisce il contrario. Egli è infatti consapevole di avere una missione, una vocazione precisa, che non è semplicemente portare in salvo in figlio (leggendo il romanzo si comprende come non sembra esserci alcuna possibilità di salvarsi definitivamente, nel senso che la salvezza la si persegue ogni giorno, e il giorno dopo essa è già rimessa in discussione da nuovi pericoli e nuove avversità): la sua vocazione è il figlio – «Questo è mio figlio, disse. Gli lavo via dai capelli le cervella di un uomo. È questo il mio compito. Poi lo avvolse nella coperta e lo portò vicino al fuoco»[3], McCarthy gli fa dire in questo straordinario elogio della figura del padre.


Nonostante sembri che sia il padre a prendersi cura del figlio – ed in effetti è così, almeno per quanto riguarda la sua sopravvivenza –, è il figlio che si occupa di mantenere vivo il padre – nello spirito s’intende –, a dare un senso alla loro storia, a dare un senso a lui, come quando il piccolo lo costringe a prendere un po’ della sua cioccolata racimolata in un rudere abbandonato, che invece il padre avrebbe voluto lasciare totalmente a lui: «devo tenerti d’occhio tutto il tempo», esclama teneramente il bambino. Darsi tutto e dare tutto: ecco un’altra missione del padre.


Se è vero che l’uno, in fondo, è la salvezza dell’altro, è vero anche che sono le piccole cose a salvare entrambi, come il camioncino giocattolo di plastica gialla custodito dal piccolo, un bagno insieme nell’acqua gelata[4], i giochi con delle carte logore, inventati dal padre nello sforzo di ricordare le regole di quelli che faceva da bambino.


Restare uomini, forti e degni, fisicamente deboli financo ma saldi nella propria umanità, sembra essere del resto l’unica arma di cui essi davvero dispongono per arginare il nulla che li circonda e che avanza famelico: nel caos generale, dove dilagano bande di predoni crudeli e in cui la fame pare legittimare anche il cannibalismo (i nostri si imbattono persino in un neonato annerito sul fuoco[5]), in un mondo privo di senso e che parrebbe privare di senso ogni cosa, essi restano umani, restano “buoni” (spesso il piccolo chiede al padre rassicurazioni in tal senso, gli chiede cioè se essi siano i buoni). C’è sempre la possibilità di essere buoni o no: è questo che insegna un padre; soprattutto, il padre del racconto, insegna che esistono i buoni e i cattivi, che c’è un Noi e un Loro; e che i cattivi si combattono restando buoni, anche a costo di morire di fame. Questa, in realtà, è una lezione che il piccolo dà al padre, quando lo implora di restituire gli abiti ad un predone che aveva tentato di rubare loro tutto ciò che avevano recuperato a fatica; la voglia di vendetta del padre è infatti placata dalla richiesta del figlio: «Non tocca a te preoccuparti di tutto» – gli dice il padre, quasi rimproverandolo- «Sì, invece», risponde il piccolo, «tocca a me»[6].


Accade anche un’altra cosa nel caos generale che li circonda e che tenta di impadronirsi anche di loro: ciascuno dei due mantiene il proprio ruolo. È soprattutto il padre che impedisce che si verifichi una confusione di ruoli e un ribaltamento delle gerarchie, che pure ci si attenderebbe come naturale in condizioni simili; come quando il figlio smarrisce la pistola, e scoppia in lacrime per tale ragione, e il padre ribadisce che è lui «quello che deve controllare se abbiamo la pistola, e non l’ho fatto»[7]. Il padre è colui che vegila sul rispetto dei ruoli-soprattutto del suo, a qualunque costo.


C’è un altro elemento che consente loro di sopravvivere, anche se appare più timidamente nel racconto e resta quasi sempre sullo sfondo: il senso del sacro, dell’esistenza di Qualcosa (o Qualcuno) che li trascende. Il rendere grazie e alzare gli occhi al cielo per farlo[8].


Portare il fuoco


C’è, però, in conclusione, soprattutto una ragione per la quale essi ogni giorno riprendono l’estenuante sfida col destino, con le circostanze in cui sono – e loro si fanno carico di queste circostanze, accettando la sfida di realizzare pienamente se stessi esattamente in quel mondo, nel loro hic et nunc[9]–: la ragione è che essi “portano il fuoco”. Celeberrimo lo scambio di battute tra il padre e il figlio:


Ce la caveremo, vero, papà?

Sì. Ce la caveremo.

E non succederà niente di male.

Esatto.

Perché noi portiamo il fuoco.

Sì. Perché noi portiamo il fuoco.


Portano il fuoco che è fatto di tutto quanto si è detto finora: del senso del sacro; del rispetto sincero e adulto dei ruoli e delle gerarchie; del servizio all’altro anche e soprattutto quando esso appare irrazionale e contrario alla logica utilitaristica del do ut des; della netta distinzione tra un Noi e un Loro; delle piccole cose del quotidiano; del restare in piedi in un mondo di rovine, parafrasando Evola.


Colpisce, e probabilmente non è un caso, che ciò che ha distrutto il mondo (il fuoco) è ciò che salva loro ogni giorno. Probabilmente quel mondo è bruciato per l’assenza di padri, perché i padri che c’erano hanno scelto di abdicare e rinunciare al proprio ruolo ultimo, di farsi custodi di questo fuoco. Il risultato è che esso è divampato, riducendo in cenere loro stessi-come nell’Apocalisse accade con i “tiepidi”, quelli, appunto, che non hanno il coraggio di mantenerlo vivo.


Conclusione


La distopia ha la funzione principale di mettere in guardia il lettore da ciò che potrebbe accadere.


Anche nel nostro mondo, come in quello descritto da McCarthy, i padri (non tanto quelli biologici, quanto quelli che scelgano di portare il fuoco) sono sempre meno.


Nel romanzo, al padre e al figlio non viene dato un nome: come a dire che quella della paternità, del mantenere vivo e custodire questo fuoco, è una questione che ci riguarda tutti.


Che ciascuno di noi, allora, possa essere tanto forte da ereditare la fiaccola da chi ci ha preceduto e tanto degno da trasmetterla a chi verrà dopo di noi. Che ciascuno di noi possa dire, con McCarthy, «Ce la caveremo, perché noi portiamo il fuoco».


[1] L’utopia-Treccani alla mano-è una “previsione, descrizione o rappresentazione di uno stato di cose futuro, con cui, contrariamente all’utopia (…), si prefigurano situazioni, sviluppi, assetti politico-sociali e tecnologici altamente negativi” [2] Cfr. C. McCarthy, La strada, Einaudi, XVII edizione, 2023, p.18 [3] Op. cit. p.57 [4] Op. cit. pp.28, 31, 42 [5] Op.cit., p.153 [6] Op. cit., p.197 [7] Op. cit., p.177 [8] Op. cit., p.112 [9] «Quando sognerai di un mondo che non è mai esistito o di uno che non esisterà mai e in cui sei di nuovo felice, vorrà dire che ti sei arreso. Capisci? E tu non ti puoi arrendere», dice il padre al piccolo (Op. cit., p.144)

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