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Un generale piccolo piccolo:

i pericoli dell’uso strategico della comunicazione nella costruzione del personaggio pubblico


È importante considerare prima di tutto che Roberto Vannacci è figlio della sua generazione, impermeabile a una società oggi fragile e isterica quando si tratta di minoranze, disabilità e sessualità, temi rispetto ai quali solo negli ultimi anni è possibile scivolare rapidamente nel tribunale dell’inclusività a tutti i costi. Non si tratta della banale retorica del conflitto tra le generazioni, è qualcosa di molto più profondo che anche i millenials, dei quali ahimè faccio parte, faticano alle volte ad accettare e comprendere. Con la differenza che ne siamo proprio terrorizzati. Spesso e volentieri, infatti, un’attenzione sbagliata, un commento inopportuno o, peggio, una confidenza possono terminare carriere brillanti.



Non sorprende che il generale, come molti dei suoi coetanei, fatichi a comprendere una società che si “evolve” dieci volte più velocemente rispetto al passato, non dimentichiamo, inoltre, che il suo io è stato influenzato anche da un retaggio culturale specifico, il quale, seppur ambisca a costruire uomini coraggiosi (non nel senso solo dello sprezzo del pericolo) e capaci di prendersi sempre le proprie responsabilità, di essere leali e di non farsi sottomettere dalle sfide della vita, nel caso degli ufficiali può stimolare anche i deliri di grandezza.


Molti sono convinti davvero di appartenere a un’élite superiore, in primis rispetto alla truppa, di cui credono di disporne (alla “Cadorna maniera”) vita e morte a loro piacimento. Si tratta poi di un assioma storico, gli ufficiali ambiscono a restare nei libri di storia e la politica è una tappa obbligata per l’immortalità. Perciò non mi sorprendono la sua spropositata ambizione, il gioco di fraintendimenti e la recita di vittima del politicamente corretto.


Da esperto di studi strategici Vannacci sa esattamente come sfruttare la comunicazione per dissimulare e ottenere successo in maniera rapida ed efficace: i concetti di guerra ibrida sono all’interno di tutti i moderni manuali di dottrina militare. In 8 mesi è stato citato, solo dal Corriere della Sera, ben oltre 600 volte, più di alcuni capi di partito, giusto per renderci conto della portata della sua visibilità. Nonostante debba ringraziare la schizofrenia dei media che ne hanno costruito involontariamente il mito, le abilità di comunicatore non colmano la deficienza dei suoi contenuti e delle argomentazioni, espresse in una forma che non ci si aspetta da un ufficiale del suo rango. E se, per fortuna sua, la dialettica si esaurisce negli scontri diretti per la psicosi dei suoi avversari, ossessionati dagli spettri perpetui del fascismo, le sue fragili argomentazioni attraversano i filtri intellettuali e ci toccano direttamente: ci abitua al fatto che alcuni problemi, come l’analisi stereotipata della realtà, la xenofobia e il pregiudizio, siano qualcosa di accettabile in una civiltà evoluta e, per di più, lo fa citando (spesso impropriamente) l’Impero romano. Il quale, tuttavia, ha proprio codificato i concetti di melting pot, cittadinanza, federalismo e pace (anche se con un’accezione opposta al concetto occidentale e moderno).


Vannacci è pienamente consapevole di quanto la comunicazione sfrutti la capacità delle parole di evocare immagini nelle mente delle persone, lo studio e la pianificazione di un discorso possono avere effetti nelle masse ancor più profondi e devastanti di un missile Iskander. Va considerato tuttavia che, a volte, le sue dichiarazioni hanno un fondo “di verità” a partire dal quale si potrebbe davvero costruire un dibattito. Se prendiamo in oggetto l’ultima affermazione sulle classi differenziate per gli alunni disabili almeno sulla carta apparirebbe come un ragionamento logico, quasi un richiamo alla selezione spartana del lancio dal Taigeto; se non fosse che in realtà la presenza di ragazzi con disabilità non intacchi per niente lo sviluppo del resto della classe e anzi, è dimostrato che sia una ricchezza per evitare la loro emarginazione sociale e lo sviluppo di una sensibilità comune.


Si sarebbe potuto semmai aprire un dibattito proprio sull’arretratezza del sistema scolastico italiano, l’impossibilità di conciliare studio, compiti, attività sportive, ricreative e artistiche nella stessa giornata, senza trascurare la vita privata e le relazioni sociali…


Eppure, nonostante tutti i gravi problemi segnalati, devo dire che nemmeno i suoi limiti culturali, la comunicazione strategica e l’ego spropositato mi hanno turbato quanto, invece, la mancanza di rispetto dimostrata in questi mesi verso la divisa. I militari hanno più doveri di qualsiasi altro cittadino. Responsabilità non solo verso loro stessi ma anche per le istituzioni, la Nazione e tutti i colleghi di ogni categoria. Pensate che nel regolamento militare è disciplinato anche come debbano comportarsi in pubblico, offrendo sempre un’immagine dignitosa e onorevole. Qualsiasi cosa fanno in divisa e da civili si ripercuote automaticamente su tutti, figuratevi se il loro nome rimbalzasse tutti i giorni sui giornali e nei talks.


Per la sua brama di celebrità e il suo egoismo imbarazza puntualmente tutta la forza armata, oltre che se stesso e il Ministro Crosetto del quale va rispettata la carica istituzionale. Non è ammissibile che un militare in udienza dal Ministro della Difesa si presenti con abiti civili, come accaduto qualche tempo fa, e non in alta uniforme. Verrebbe da pensare allora che non ci sia cura al virus dell’insignificanza e invece, per fortuna nostra, la letteratura greca ci insegna che ogni qualvolta l’uomo pecchi di tracotanza si scatena la nemesis per ristabilire l’ordine, nel frattempo noi possiamo cambiare canale tv.


Cesare Taddei

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