
Italia, l'ultimo respiro di Umberto II, Re in esilio
È il 18 marzo 1983, in una sala dell' ospedale cantonale di Ginevra, un uomo anziano, stanco e ammalato, giace solo in una camera. Nel pomeriggio, un'infermiera entra nella sala, nota che il signore ricoverato è, ormai, ai suoi ultimi istanti di vita; mentre gli stringe la mano e l'uomo esala la sua ultima parola, amata e perduta, egli pronuncia, e ripete: Italia.
Così si conclude l'esistenza terrena di Umberto II di Savoia, ultimo Re d'Italia, sul trono per appena un mese, che passò la vita in esilio.
Umberto II di Savoia: principe e re tra due ere della storia italiana
Raccontare la vita di Re Umberto II, significa mostrare lo spaccato di un mondo, di una vecchia Europa di nobiltà e di teste coronate, oramai finita, ma ricordata, ad esempio, in modo malinconico nel film di Fellini Amarcord.
Indro Montanelli, fu uno dei milioni di italiani, che il 2 e 3 giugno 1946, votò per il Re e per la monarchia. Montanelli credeva in questo istituto, incarnato da Umberto II, sosteneva come la monarchia fosse il legame principale con la nostra storia nazionale, perché l'Italia è stata fatta dai Savoia ed è nata il 17 marzo 1861. La repubblica nasce dopo una cesura, figlia di una guerra persa e per volontà dei partiti.
Umberto II ha saputo incarnare lo spirito romantico e malinconico dei suoi tempi. Nato il 15 settembre 1904 a Racconigi, figlio di Vittorio Emanuele III ed Elena del Montenegro, fu educato fin dalla più tenera età come erede al trono, con un impronta dura e ferrea di disciplina, come d'uso presso una grande casa regnante.
Considerato uno degli uomini più belli, aitante principe in divisa, faceva sognare l'Italia e l'Europa degli anni venti. I fasti del bel mondo dorato, ahimè, si abbrunirono davanti alle dure prove di quegli anni.
Monarchia e Fascismo: Umberto II e l'esercito Italiano durante il regime
Il rapporto tra la corona e il fascismo, che nei primi anni era tutto sommato stabile e istituzionalizzato, dopo il 1937 seguitò a peggiorare. Umberto, e in modo più attivo la moglie Maria José del Belgio, temevano le spinte anti-monarchiche di Mussolini e le possibili intromissioni nella linea di successione.
Ben presto sopraggiunse la guerra, un conflitto al quale l'Italia non era minimamente pronta e preparata. Umberto sottolineò più volte l'inadeguatezza dei mezzi ai vertici militari e politici, trovando sponda favorevoli in "uomini nuovi" come Italo Balbo e Galeazzo Ciano, proprio quest'ultimo, dopo un colloquio con il Principe di Piemonte, nel febbraio del 1940, scriverà su Umberto: «molto antitedesco e convinto della necessità di rimanere neutrali. Scettico - impressionantemente scettico - sulle possibilità effettive dell'esercito nelle attuali condizioni -che giudica pietose- di armamento».
La guerra colpirà duramente il Paese, e anche Umberto, molti membri della sua famiglia saranno catturati e internati, come la sorella Maria Francesca con i figli, le congnate Anna di Francia con le figlie, Irene di Grecia con il piccolo Amedeo e soprattutto Mafalda, che morirà a Buchenwald, e Amedeo Viceré d'Etiopia, che morirà in prigionia in Kenya.
La fine della monarchia: il colpo di Stato e l’abdicazione
Nel 1943, nell'anno più tragico e fatidico, Umberto tenterà di salvare il salvabile, cercherà invano di rimanere a Roma dopo l'8 settembre, quasi anelando la battaglia e la morte sul campo piuttosto che il trasferimento in un altro luogo. Ma l'ordine di Badoglio, allora Capo del governo, lo obbligherà a seguire i vertici militari a Brindisi.
Nel 1944, Umberto diverrà Luogotenente Generale del Regno, assumendo così i poteri del Capo dello Stato. Sarà un breve anelito, come la scia di una cometa che volge alla fine; sul porticciolo di Villa Maria Pia, a Napoli, Umberto II saluterà i genitori, era il 9 maggio del 1946, la guerra era finita, il Paese era devastato e il vecchio Re aveva abdicato in favore del figlio.
L'ultima speranza per una dinastia con mille anni di storia sulle spalle, poggiava sul capo di un uomo, che a quarant'anni sembrava improvvisamente invecchiato, forse perché conscio di dover affrontare una prova insormontabile.
Attraverso il referendum generale, si doveva scegliere la forma istituzionale della nazione: monarchia o repubblica. In quelle settimane lo slancio di Umberto II fu enorme e dignitoso, visti i terribili attacchi subiti da una parte dei più acerrimi avversari.
L’esilio di Umberto II: Il dolore di un Re senza Patria
L'esito referendario non sarà chiarissimo, la repubblica aveva due milioni di voti di vantaggio sulla monarchia, chi pensava ad una vittoria eclatante dell'istituto repubblicano rimase deluso e timoroso: i giorni si susseguirono incandescenti, la notte del 13 giugno, violando ogni buon diritto, il Consiglio dei ministri conferì al Capo del Governo De Gasperi le funzioni di Capo dello Stato, senza attendere il pronunciamento della Cassazione (che si sarebbe tenuta solo il 18 giugno).
Questo "atto rivoluzionario", mise Umberto II davanti ad una scelta, sconfessare e fermare il golpe del governo o andarsene; la scelta sofferta fu la seconda, Umberto II lasciò per sempre la propria nazione, senza abdicare scelse la via dell'esilio, soprattutto per evitare lo scoppio di una possibile guerra civile.
Nel suo proclama ufficiale di quel giorno Umberto II lo sottolinea:
«Di fronte alla comunicazione di dati provvisori e parziali fatta dalla Corte suprema; di fronte alla sua riserva di pronunciare entro il 18 giugno il giudizio sui reclami e di far conoscere il numero dei votanti e dei voti nulli; di fronte alla questione sollevata e non risolta sul modo di calcolare la maggioranza, io, ancora ieri, ho ripetuto che era mio diritto e dovere di re attendere che la Corte di cassazione facesse conoscere se la forma istituzionale repubblicana avesse raggiunto la maggioranza voluta.
Improvvisamente questa notte, in spregio alle leggi e al potere indipendente e sovrano della magistratura, il governo ha compiuto un gesto rivoluzionario, assumendo, con atto unilaterale e arbitrario, poteri che non gli spettano, e mi ha posto nell'alternativa di provocare spargimento di sangue o di subire la violenza. [...]
Compiendo questo sacrificio nel supremo interesse della Patria, sento il dovere, come italiano e come Re, di elevare la mia protesta contro la violenza che si è compiuta; protesta nel nome della corona e di tutto il popolo, che aveva il diritto di vedere il suo destino deciso nel rispetto della legge e in modo che venisse dissipato ogni sospetto.
A tutti coloro che ancora conservano la fedeltà alla monarchia, a tutti coloro il cui animo si ribella all’ingiustizia, io ricordo il mio esempio e rivolgo l’esortazione di voler evitare l’acuirsi di dissensi che minaccerebbero l’unità del Paese, frutto della fede e del sacrificio dei nostri padri, e potrebbero rendere più gravi le condizioni del trattato di pace.
Con l’animo colmo di dolore, ma con la serena coscienza di aver compiuto ogni sforzo per adempiere ai miei doveri, io lascio la mia Patria. Si considerino sciolti dal giuramento di fedeltà al Re, non da quello verso la Patria, coloro che lo hanno prestato e che vi hanno tenuto fede attraverso tante durissime prove.
Rivolgo il mio pensiero a quanti sono caduti nel nome d’Italia, e il mio saluto a tutti gli italiani. Qualunque sorte attenda il nostro Paese, esso potrà sempre contare su di me come sul più devoto dei suoi figli».
Re Umberto II in esilio: dignità e memoria
Il Sommo Poeta nazionale, nel canto XVII del Paradiso nella Divina Commedia definisce così l'esilio:
«... Tu lascerai ogne cosa dilettapiù caramente; e questo è quello straleche l'arco de lo essilio pria saetta.Tu proverai sì come sa di salelo pane altrui, e come è duro callelo scendere e 'l salir per l'altrui scale...», per Umberto II non fu da meno, sulla costa portoghese questo signore malinconico e triste passava le giornate innanzi all'oceano Atlantico, sognando la Patria perduta.
Da Cascais però, Umberto II fece sempre sentire la sua voce, perché, come l'Artù dei canti di Sir Thomas Malory, egli era «Re una volta e Re per sempre», le sue parole e i suoi aiuti confortarono i civili colpiti dalla tragedia del Vajont, si ribellarono contro l'ingiusto trattato di Osimo e la cessione dei territori del confine orientale, cosa che egli ribadì da sempre, tant'è che già prima del trattato di pace del 1947 ebbe egli stesso a dire:
«Mai firmerei, anche a costo della rinuncia al Trono, un trattato di pace che comportasse la perdita di Trieste». Ma il tempo dei Re era finito, era il tempo dei politici, degli economisti, come scrisse il "Cicerone britannico" Edmund Burke: «L'età della cavalleria è finita. Quella dei sofisti, degli economisti e dei contabili è giunta; e la gloria dell'Europa giace estinta per sempre».
Eppure, in quel mondo che dimenticava, la compostezza e l'onore di Umberto II non sono mai venute meno, la dignità che egli emanava era alla pari del suo amor di Patria, il suo motto fu sempre "l'Italia innanzitutto", come ricordava il nipote, ed erede dinastico, Amedeo di Savoia, che prima di prestare servizio militare per la Marina, negli anni sessanta, chiese dispensa al Re in esilio, e questi gli rispose senza esitare:
«Ricordati che nel 1946, quando lasciai la Patria, sollevai tutti dall'obbligo del giuramento: l'Italia innanzitutto, la forma istituzionale non importa. L'Italia esiste, quindi giura».
Purtroppo, ancora oggi, le spoglie di questo Sovrano, riposano ingiustamente in esilio, presso l'antichissima Abbazia di Altacomba, accanto alle tombe dei suoi antenati, sotto le volte gotiche; ma un giorno, forse, quando una maggiore maturità storica e nazionale lo permetterà, le sue spoglie potranno tornare nell'amatissima Patria, come auspicato malinconicamente dallo stesso Sovrano:
«Ma ci sono in me il Re e l’uomo. Il Re s’è affidato a Dio. L’uomo può desiderare che Iddio non voglia lasciarlo morire in esilio».
Alessio Bennassi